Chi sono io, per te? È una domanda che nell’imminente festa di San Valentino gli innamorati rivolgono a loro stessi, in trepidante attesa di un gesto, di un dono, che riveli l’essenza della loro presenza allo sguardo dell’amata e dell’amato.
La ricerca della nostra identità, che passa sempre attraverso l’incontro con l’altro, si appropria della domanda: chi sono io? E Concita De Gregorio in uno dei suoi recenti lavori intitolato “Chi sono io? Autoritratti, identità, reputazione”[1] ha affrontato il senso della questione riportando la testimonianza di alcune protagoniste della fotografia femminile impegnate nel cammino dell’autorappresentazione, che con l’autoritratto hanno dato forma alle loro storie interiori, alle loro paure e alle loro ossessioni.
In epoca di selfie è lecito chiedersi perché si ha la necessità di rivolgere l’obiettivo verso sé stessi, perché mostrarsi agli altri è così vitale. La reputazione di sé mediante il consenso dei social sembra essere diventata una consuetudine, una pratica mediatica che ha preso il posto del lavoro di conoscenza di sé che costruisce la propria identità. Sappiamo quanto è importante per gli adolescenti il giudizio degli altri, e la paura che il parere dell’altro sia di disapprovazione può essere paralizzante. Soprattutto se si parla di bellezza, più che di capacità intellettive che riguardano il successo sociale, perché la bellezza riguarda il successo sentimentale e sessuale, sia dei maschi sia delle femmine.[2] “In tutti i casi, che si tratti di un’emozione, di un giudizio, di una percezione o di una rappresentazione, lo stato affettivo che ne deriva è costituito da un mix di rabbia, innescata dal danno mal sopportato, di vergogna, che non è solo di indole sociale ma si irradia nelle relazioni interne alla mente, e di una radicale disistima nei confronti del valore della propria persona.”[3]
L’io, naturalmente, il senso di sé lo deve cercare, deve faticare nel trovare il proprio orientamento perché non è il collettivo che glielo conferisce; ed è corretto ricordare sempre che il cammino è individuale, ed è il percorso che diviene il luogo dell’incontro e della relazione tra l’io e il tu. La relazione è quindi un “atto artistico”, un momento creativo come lo è l’incontro tra il fotografo e l’obiettivo della macchina fotografica quando è rivolta verso sé stesso e crea l’immagine: un punto condiviso dell’identità. Ma per fare ciò “è necessario che l’io si determini dall’interno, di qualsiasi cosa parli il suo interno. Questo è l’atto di passaggio da Oggetto a Soggetto.”[4]
[1] Concita DE GREGORIO, Chi sono io? Autoritratti, identità, reputazione, Edizioni Contrasto, Roma, 2017.
[2] Gustavo PIETROPOLLI CHARMET, La paura di essere brutti. Gli adolescenti e il corpo, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2013.
[3] Ivi, p. 44.
[4] Roberta ROSSI, Donna Soggetto. Adattamento, desiderio e trasformazione, in: Il Maschile e il Femminile Oggi. Sguardi sul conscio collettivo. Atti del Convegno di Bologna 1 dicembre 2018, Temenos, 2019, p. 34.