"Radicati nel bene"

DOPPIOZERO - PSICOANALISI / LIBRI

Sabina Cagnoni                                                           

Si può dare, pensare e proporre una visione del mondo che non sia solo intellettuale ma anche pratica ed esistenziale? È una domanda che ha una sua tradizione e che negli ultimi due secoli ha occupato filosofi e storici. Wilhelm Dilthey, nel saggio del 1911 su I tipi di intuizione del mondo, afferma: “Le intuizioni del mondo non sono prodotti del pensiero; esse non nascono dalla mera volontà di conoscenza. L’apprendimento della realtà è certo un momento importante, ma è soltanto un momento. Esse scaturiscono dall’atteggiamento di vita, dall’esperienza della vita, dalla struttura della nostra totalità psichica”.

È muovendo da qui che In principio. Una Weltanschauung psicoanalitica (Alpes, 2024), Massimo Diana si spinge oltre ciò che affermava Jung: “Se la psicologia analitica non è propriamente una Weltanschauung, è tuttavia qualcosa di significativo per produrne una” (Psicologia analitica e visione del mondo, in O.C.G.J., vol.8, pag. 408). Per tornare agli inizi: quelli della nostra vita individuale e quelli della specie umana.

Perché, In principio, non c’era il male. In principio c’era una insopprimibile tensione all’esistenza, un conatus essendi di spinoziana memoria, che se non sorretto da una holding efficace può far deviare il desiderio di vivere verso posizioni non autentiche, dando origine in questo modo a una torsione che spiega meglio di qualunque altra teodicea l’origine e la sussistenza del male – nella convinzione che la distruttività e auto distruttività umana siano reattive e non innate.

Già nel suo precedente Unde Malum? L’enigma della distruttività umana (Mimesis, 2022), l’autore si era occupato del tema valutando l’impatto che l’erosione delle tradizioni ha prodotto sulla collettività, ritenendo a buon motivo che la ritualità, in ogni sua forma, religiosa, mitologica, spirituale tout court, abbia sempre svolto sociologicamente e storicamente il ruolo – importantissimo – di contenitore delle angosce.

In questo nuovo testo, compare qualcosa in più, qualcosa che ha a che fare direttamente con chi si occupa e preoccupa di curare l’altro, dopo aver curato se stesso: una Weltanschauung psicoanalitica.

Parliamo di 170 pagine che scorrono limpide su territori inquinati, ovvero su molti faux problèmes superabili grazie alle conoscenze psicoanalitiche – in particolar modo Diana si riferisce a Donald Winnicott e ai suoi studi fondamentali e dirimenti sullo sviluppo emotivo del cucciolo d’uomo – e a quelle antropologiche.

Perché se il male è un problema che riguarda l’individuo, a maggior ragione non può non riguardare l’intero gruppo umano. Già Freud aveva intuìto che l’ontogenesi può essere considerata come una ripetizione della filogenesi (in Prefazione” alla terza edizione di Tre saggi sulla teoria sessuale (1905), in O.F.S., vol. 4, p. 448 ) e Jung a sua volta, in Ricordi, sogni, riflessioni, espresse la convinzione che la coscienza fosse in ultima istanza una formazione secondaria: “La coscienza cominciò la sua evoluzione da una condizione simile a quella animale, che per noi è inconscia, e lo stesso processo di differenziazione si ripete in ogni bambino.

Emerge la visione di una “analisi in due movimenti”: il primo si radica nell’ontogenesi, il secondo nella filogenesi. Essi danno luogo a una oscillazione continua – simile alla diastole e alla sistole del battito cardiaco – che si propone da un lato di “liberare la libertà” da tutti i condizionamenti che impediscono a un individuo di mettersi in cammino per la propria avventura e di incarnarsi nella realtà; dall’altro lato di sostenerlo nella ricerca del senso o della direzione verso cui orientare le “ali del desiderio” (p. VII dell’Introduzione).

Questa la tesi che Massimo Diana offre al lettore e alla lettrice del suo ultimo libro, una tesi che scaturisce da una vasta conoscenza sia psicoanalitica sia spirituale e pure religiosa in senso stretto. Massimo Diana è capace di far dialogare i testi sacri di varie tradizioni spirituali e di renderli fruibili in chiave simbolica, così da far cadere sterili contrapposizioni e tendenze all’irrigidimento.

Diverse citazioni dei testi sacri appaiono e sono messe in relazione alle questioni psicoanalitiche con una mirabile semplicità, cui si può giungere solo se i contenuti sono stati lentamente digeriti, ruminati oserei dire.

Porrei attenzione, dunque, per restare sul piano delle immagini, alla metafora fondamentale di In principio. Una Weltanschauung psicoanalitica che è quella del movimento del cuore: un ritmo che è insieme fisiologico e simbolico, almeno nella visione ampia dell’autore, e che dal trauma infantile individuale al trauma archetipico della perdita del paradiso, dall’ontogenesi alla filogenesi può essere riparato grazie al sapere psicoanalitico, antropologico e spirituale. Questo sapere complesso ci ha insegnato che all’origine, in principio, l’emergere della coscienza e la trasformazione delle emozioni negative in pensiero poggiano sul minus della frustrazione, sulla limitatezza intrinseca, e sulla capacità squisitamente umana di accettare questa privazione.

Così, passaggi intrinsecamente traumatici – sia per l’individuo sia per il gruppo umano – possono riconquistare una funzione evolutivamente costruttiva, e la cura psicoanalitica diviene snodo indispensabile per riappropriarsi di una vita autentica attraverso il doppio movimento diastolico e sistolico, in cerca di orientamento (individuale, sì, ma sostenuto da una mitologia personalissima) e significato.

E perché non rivolgersi semplicemente alle tradizioni spirituali? Massimo Diana fornisce una risposta molto convincente: “Più radicalmente ancora, questo passaggio (la de-istituzionalizzazione del religioso) consentirebbe di superare il pericolo del cosiddetto Spiritual Bypassing, ovvero della ‘scorciatoia della spiritualità’ per evitare, con una battuta, di andare dallo psicoanalista. Il bypass spirituale consiste infatti nell’utilizzare, fino ad aggrapparvisi, idee e pratiche spirituali per evitare di affrontare problemi emotivi e ferite psicologiche irrisolte. Il bypass spirituale permette infatti lo sviluppo dell’illusoria convinzione che, eseguendo determinate pratiche oppure affidandosi a sedicenti guru o maestri spirituali, sia possibile superare le problematiche emotive che ci tormentano, senza doverle apertamente affrontare in una psicoterapia” (p. 59).

In omaggio alla professione di analista biografico ad orientamento filosofico, che si impernia sul mettere al centro non le proprie teorie, ma la propria vita, ho apprezzato moltissimo una nota che riporto integralmente: “Confesso che questa esperienza l’ho vissuta (e continuo a viverla anche ora, seppur in modo diverso) fin da quando ero bambino. La preghiera era per me un rifugio compensativo rispetto alla realtà di genitori non proprio capaci di sintonizzazione sui miei bisogni di bambino. Ma solo pochi anni fa ho compreso realmente tutto il valore di questa esperienza. Avevo da poco iniziato la mia terza analisi, con Mauro Manica. Sdraiato sul lettino, avevo iniziato a parlare quando, improvvisamente, mi accorsi che il mio analista, alle mie spalle, si era addormentato. Smisi di parlare e rimasi in silenzio, aspettando che si svegliasse. Quando si svegliò, venti minuti dopo, non osai dire nulla di quello che era accaduto, tanto rimasi male. Trovai il coraggio e la forza di raccontare quell’episodio solo un paio di anni dopo, verso la fine del percorso analitico. Ma ora, quando ci ripenso, provo una profonda commozione: ora ho capito cosa vuol dire essere ‘come un bimbo svezzato in braccio a sua madre’, a una madre che, stanca, si abbandona al sonno, accanto al suo piccolo. L’esperienza spirituale si è verificata, incarnata, è ora divenuta realtà” (p. 58).

La trasformazione del negativo è un’operazione complessa che nell’ottica dell’autore non si potrebbe svolgere se in principio non esistesse un’originaria tendenza alla vita, su questa linea Diana si confronta con il testo La legge della parola di Massimo Recalcati.

Nell’ultimo capitolo, infine, parlando di eredità emotive, coazioni a ripetere ed esperienza in stanza di analisi, sia come analizzante sia come analista, Diana ci offre la metafora del movimento del cuore, dove il punto centrale del battito diastolico è trascendere ogni possibile interpretazione per giungere al contenimento che permette di digerire le esperienze emotive, e il punto centrale del movimento sistolico è il bisogno di senso da ricercare in modo del tutto personale per riuscire a sopportare la sofferenza che la vita ci consegna inevitabilmente.

Citando Romano Màdera: “La psicologia, senza trascendenza spirituale, non esce dal labirinto autoreferenziale, e perciò nevrotico; la spiritualità, senza interiorità psicologica, non esce dal suo mitologismo” (in La carta del senso. Psicologia del profondo e vita filosofica, Raffaello Cortina, p. 293).

La gratitudine che l’autore esprime nei confronti dei suoi ultimi due percorsi di analisi e nei confronti dei relativi analisti, arricchita da un elenco dettagliato degli insegnamenti ricevuti, trasmette a chi legge un’impressione soave e profonda: quella di trovarsi al cospetto di un esercizio autentico, filosofico, di accoglimento e rielaborazione dell’esperienza in senso trasformativo e costruttivo. Non poco, anzi molto e più che sufficiente per consentirgli di parlare mitobiograficamente di una nuova visione del mondo.

Del presente

È bastato un soffio perché la memoria sollecitata dalle immagini di Elena Grossi mi portasse in un paesaggio lontano. La tentazione di svelare il luogo per avvicinarsi con la visione agli oggetti comporta uno sguardo audace che invita ad entrare, ma la messa a fuoco dell’occhio non basta. Nelle fotografie, l’uso della polvere che ha rivestito le scene di questa dimora ha sottratto con riserbo l’interiorità delle stanze ritrovate, in cui lo strato di fine pulviscolo della materia era divenuto, come dispositivo del tempo, l’abito della casa. Il suggerimento offerto dal mantenimento dell’involucro mi conduce oltre il momento presente verso la terra vista nella sua nudità, quale corpo attraversato dalle esperienze fissate come tracce nelle fotografie di Timothy O’Sullivan. Una semplicità che riporta alle origini, in spazi deserti dove non è rappresentata la sembianza umana, e la terra è la prima casa, archetipo dell’abitare con tutte le insidie che l’identificazione con la parte negativa del distacco emotivo può comportare.

Nel racconto per immagini della casa dei natali di Elena affiora il sentimento dell’abitare, della memoria della vita passata attraverso la testimonianza di quello che resta con una qualità impersonale, e si fa strada la necessità dell’affetto di arrivare a noi, che lo riceviamo nell’espressione tenue delle sagome incipriate degli oggetti. La polvere sembra dimostrare il vuoto della presenza di vita all’interno di ogni alloggio, l’assenza di cura che con gesti ripetitivi trasmette la memoria delle forme alle mani e radica il mobilio al suo ambiente, ma al contempo l’uso che l’artista ne fa consente alle immagini di “rimuovere la rimozione” di nullità e inesistenza per rendere familiare il ritorno dell’oggetto e del modo di poterlo guardare.

Le parole di Elena hanno descritto lo spazio delle cose e del rapporto tra l’essere umano e il mondo, un intreccio disponibile a farsi luogo, a trasformarsi nella costruzione del suo immaginario, disponibile al suo gioco e al suo capriccio. E forse è così che la nostra continua erranza, la capacità di vagare e di ritornare all’origine si ripropone ogni volta che dobbiamo rinnovare l’incontro con l’alterità: da un ampio guardaroba scegliamo la pelle della polvere più appropriata alla nostra persona. E la fotografa ricomincia dall’altra parte dell’obiettivo.

Molti scatti testimoniano il girovagare dello spirito mercuriale di Elena nella grande casa di campagna, abitata dalla famiglia da tre generazioni ed ora destinata solo in parte agli eredi. Nuove persone sono venute a vivere nella tenuta dei trisavoli, ma alcuni ambienti privati e diverse aree comuni non hanno ricevuto lo stesso destino. E proprio questi vani interni, passaggi e perimetri esterni all’edificio attendono la sua presenza, per imprimere nella memoria della carta stampata il simbolo del focolare domestico, consacrato dalla vecchia generazione in questa residenza alla quale, con coscienza condivisa, l’autrice desidera dare continuità. In un soffio l’anima di questi luoghi riprende vita e illumina tutte le cose. E noi intuiamo le forme nelle immagini monocromatiche, a tratti sbiadite con un bianco bruciato e velate con la polvere della loro presenza.

Con la concentrazione focalizzata sul compito che la figura di Estia nel mito dedica al tempo della cura, la scelta di Elena delle immagini esposte nella mostra insiste sulla congiunzione dei luoghi. Nella circolarità che unisce gli ambienti, con le scale a pioli delle cantine fino alla scalinate con balaustre finemente realizzate in marmo da una mano sapiente e familiare, si arriva al centro della casa. Qui il mobilio occupa la scena della sala da pranzo, e mostra che la segretezza appartiene ad altri contenitori. Elena sa che non basta togliere la polvere da queste superfici e accumularla con attenzione per velare il fantasticare del tempo passato. Le piace ricordare “Le mueble” di Charles Cros in cui esseri immaginari nascono dal mistero di un mobile amorosamente intarsiato […] e nel silenzio della notte il poeta sorprende i complicati intrighi tramati […].

In questo gioco di andata e ritorno, le riprese di questi paesaggi interiori fatti di spogli scantinati di mattoni e cemento e, via via a salire, di piani un tempo abitati che conservano suppellettili in apparente disuso, mi proiettano di nuovo all’esterno, e il ricordo va ad alcuni lavori fotografici di Marina Ballo Charmet. Qui il dispositivo di richiamo al presente, di interruzione di un sguardo disabitato, divenuto cieco per troppa abitudine, non è più il punto di vista della polvere ma quello del bambino. Da una diversa altezza, che è anche distanza da un Io incapace di estraniarsi, ci è dato un senso nuovo, un sovrappiù di spazio, nella visione di piazza del Duomo a Milano. Un progetto intitolato milanopiazzaduomo ideato con Gabriele Basilico in cui la sfida dell’autrice di abitare la piazza è assegnata alla vista dal basso, instabile e decentrata, dell’occhio di un io bambina.

Nella poetica di Gaston Bachelard, lo ricordo con le parole di Elena, lo spazio è un sé come il miele nell’alveare. Ecco allora che i due spazi, dell’intimità e del mondo, si toccano, si confondono, diventano consonanti. E noi, portati in tal modo al centro delle immagini fotografiche di questo ciclo di lavoro di Elena Grossi, possiamo scegliere quale sguardo vogliamo abitare per avvicinare, come estranei incuriositi, gli oggetti carichi di casalinga intimità.

A MIO PADRE

LA CITTÀ DELLE SCULTURE Alcide Fontanesi

A un anno dalla sua scomparsa mtn | museo temporaneo navile intende fare una sintesi della straordinaria vicenda creativa di Alcide Fontanesi (Reggio Emilia 1926, Bologna 2020). Il progetto espositivo sottolinea gli aspetti della sua opera relativi all’indagine sullo spazio pubblico e sulla funzione dell’arte in un contesto sociale, questo punto ha caratterizzato sostanzialmente tutta la ricerca dell’artista. Nella pratica creativa di Fontanesi la scultura è attentamente progettata per inserirsi all’interno della vita comunitaria. Svolgendo in essa un ruolo sia funzionale, il luogo dove viene posta l’opera diventa uno spazio di prossimità, dove le persone possono riunirsi, riposare, giocare; sia a livello immaginativo, la materia, la forma e la sua superficie diventano un linguaggio capace di accogliere e comunicare nuovi orizzonti di senso all’organismo sociale. Un aspetto che andrebbe sempre tenuto in considerazione, quando ci si approccia al lavoro di un artista, è quello di conoscere i moventi che caratterizzano la sua ricerca. Le motivazioni di Fontanesi, soprattutto nell’ultimo periodo, erano quelle di vedere le proprie opere vivere, non in un asettico luogo espositivo, ma dentro la città, accompagnando la quotidiana vita degli esseri umani. Immaginava con piacere che le sue sculture fossero in qualche modo aperte e disponibili ad accogliere, oltre che l’azione entropica degli agenti atmosferici, anche eventuali segni, graffiti, messaggi lasciati dal popolo. È dunque implicito questo rapporto paritario con l’altro, non così scontato, che l’artista cercava e che costituisce una di quelle motivazioni di cui si parlava sopra. Questo progetto espositivo, oltre che permetterci di approfondire l’opera del maestro, ci consentirà di attivare qualcosa di molto significativo e necessario oggi: il museo diffuso sul territorio. L’arte diventa così un’esperienza condivisa e democraticamente disponibile a tutti. All’interno del museo saranno ospitate un numero significativo di opere plastiche e pittoriche di Fontanesi che fungeranno da centro dal quale sarà possibile, anche grazie a un supporto critico e a una mappa resa disponibile dal museo, conoscere le opere pubbliche presenti sul territorio di Bologna. Questa esperienza di museo diffuso, oltre che sintetizzare a nostro avviso l’essenza dell’opera di Alcide Fontanesi, ci permette di approfondire sempre di più l’identità di mtn | museo temporaneo navile come museo di quartiere e luogo di ricerca in campo artistico e sociale.

La mostra, curata da Marcello Tedesco, parteciperà al programma ufficiale di ART CITY 2022 e sarà accompagnata da un testo critico di Valeria Tassinari.

La mostra è sempre visibile dall’esterno del museo. Orari: venerdì dalle 15 alle 19, solo su appuntamento scrivendo con anticipo a info@museotemporaneonavile.org

Opening: 17 dicembre 15.00-19.00

mtn Museo Temporaneo Navile - via John Cage 11/a-13/a - 40129 Bologna - www.museotemporaneonavile.org

Alcide Fontanesi nasce a Reggio Emilia il 29 maggio 1926. Trascorre l’infanzia a Roncadella, nella campagna reggiana, e fin da bambino rivela una naturale predisposizione e attenzione al disegno, un desiderio non sempre rispecchiato in famiglia durante gli anni della crescita e della prima formazione scolastica. È partigiano durante la seconda guerra mondiale con il nome di battaglia “Lince”. La qualifica di patriota gli viene conferita dall’ANPI per il reclutamento nel reparto della 76a S.A.P. dal 15 dicembre 1944 al 5 ottobre 1945. Si trasferisce a Bologna negli anni cinquanta, e nella città di adozione inizia a occuparsi di progettazione e produzione di arredamenti di interni per abitazioni e uffici. La passione per il disegno, la pittura, e l’uso dei materiali è affiancata al lavoro di ideazione e elaborazione svolto in officina fino agli inizi degli anni settanta, quando lascia l’azienda per dedicarsi al solo lavoro artistico. La frequentazione con il maestro bolognese Paolo Manaresi lo incoraggia a proseguire nella scelta, e a dare forma al linguaggio espressivo di quegli anni: dal paesaggio, alla pittura informale dei materiali, fino alla modellazione delle lastre di ferro il cui contorno morbido e docile diviene una cifra del suo fare scultoreo. Nel 1973 dà vita al laboratorio artistico chiamato “Il tubo”, situato nella bolognese via Mascarella degli anni Settanta, all’interno del quale si animavano dibattiti artistici, culturali e politici, uno spazio che via via si trasforma e lascia il testimone all’attività espositiva del Centro Mascarella Arte Ricerca nel 1982.

Negli anni ottanta Adachiara Zevi descrive il lavoro artistico di Fontanesi come una “ricerca successiva di contaminazioni tra materiali e spazi diversi” (1983). E in questo decennio la pittura su tela e su tavola di legno lascia il passo al dialogo tra le sculture in acciaio e gli spazi, sia interni sia esterni, che diventano luoghi grazie alla relazione e allo scambio che li trasforma. Una “scultura di superficie” come è stata chiamata da Andrea B. Del Guercio, con una vocazione che “accresce e qualifica una volontà ‘aperta’ dell’opera plastica” (1990).

Grazie alla collaborazione del presidente del Quartiere Navile Claudio Mazzanti e del Comune di Bologna, nel novembre del 1998 viene ospitato all’interno del “Progetto Bolognina” un nucleo di sculture realizzate nel biennio 1997-1998, concepite per essere esposte all’aperto, in dialogo con il vecchio quartiere della città. Nel 2006 sette sculture di questo ciclo intitolato “Genesi” trovano collocazione permanente nell’area antistante al Teatro Testoni, nel Parco Zucca, nel Parco dei Giardini e nel Parco della Fiera, distretto situato nel limitrofo Quartiere San Donato che per volontà del presidente Riccardo Malagoli ampliava la mappa e metteva in comunicazione le opere scavalcando i confini amministrativi del territorio. Nel 2010 sarà ancora Riccardo Malagoli che in concomitanza con il progetto intitolato “Bella fuori… dentro San Donato” curato dal Comune di Bologna e dalla Fondazione del Monte, ospiterà “Abitare lo spazio” tre sculture di Fontanesi collocate permanentemente nelle aree verdi antistanti la ridisegnata sede del Quartiere. I locali ospiteranno nel 2018, per volontà del Presidente Simone Borsari e del Comune di Bologna, la donazione Alcide Fontanesi che è ricordata con le parole scritte di Valeria Tassinari: “Presentare l’opera di Alcide Fontanesi poco dopo il suo novantesimo compleanno è un regalo, un vero dono per chi scrive, perché nella sua persona e nel suo lavoro si incontrano un’energia stabile, una certezza di valori, una precisione poetica di rara delicatezza” (2017).

Nel giugno del 2017 la collaborazione tra il presidente del Quartiere Navile Daniele Ara, il Comune e la Provincia di Bologna consente ad Alcide Fontanesi la realizzazione sul territorio dell’ultima opera scultorea intitolata “Geometrie sospese”. L’opera donata al Liceo Sabin di Bologna è stata installata all’ingresso dell’Istituto per conferire una nuova identità al cortile e alla facciata del Liceo.

Alcide Fontanesi si è spento a Bologna il 14 settembre 2020, proprio in quei giorni mtn | museo temporaneo navile ospitava una sua opera in occasione della mostra “Neutral”.

Foto di Ennio D’Altri

La cura oscura

La cura oscura [1]

“Per chi non crede in un Dio che ha un piano per noi, il significato della vita di solito si trova nel cercare di aiutare gli altri, in particolare coloro che amiamo.” (Jonathan Franzen)[2]

Tra i modi della cura possiamo annoverare l’attenzione al particolare, al dettaglio, al dato unico dell’individuo, eccezionalmente irripetibile. Quando facciamo esperienza, il frutto del caso che si presenta come arricchimento della nostra persona – soprattutto quando ciò avviene in giovane età, ma non solo – sembra portarci fuori dal senso comune, al di sopra della norma, nell’aura che caratterizza l’evento elitario o, addirittura, l’opera d’arte. Ci sentiamo speciali. Così può accadere quando rimaniamo emotivamente sospesi, gonfi e quasi tronfi, per quei fatti vissuti che costituiscono ammirazione ai nostri stessi occhi. Poi, è sufficiente confrontarsi con il gruppo dei pari per imparare che l’esperienza eccezionale è stata vissuta da molti dei suoi componenti, e il “welcome to the club” è il modo migliore per riportare a terra i piedi dello spavaldo di turno. Sappiamo dagli studi di psicoanalisi sul narcisismo che l’uomo utilizza il processo creativo avvalendosi degli aspetti affettivi e simbolici per rimodellare e dare una nuova forma ed espressione alle parti del Sé. E l’uso attuale delle moderne tecnologie, dei computer e dei cellulari dalle cui piattaforme web è possibile soddisfare il bisogno comunicativo, ha moltiplicato il numero delle persone che alimentano la propria narrazione con l’ammirazione filtrata attraverso la realtà virtuale. Come scrive Gustavo Pietropolli Charmet “[…] è molto probabile che nella società del narcisismo esista un consenso implicito e quasi una esortazione rivolta a tutti a intonare il proprio canto […]. È verosimile che se il modello educativo familiare e il contesto sociale favoriscono la realizzazione del Sé, il soggetto cerchi di ottenere il massimo livello di visibilità sociale possibile. Per Narciso essere guardato mentre cerca di affrontare la condizione umana è importante e lo aiuta a tirare avanti”[3]. L’Autore giunge inoltre ad ipotizzare, mettendoci in guardia, “che l’imponente sforzo espressivo che caratterizza il soggetto attuale, orientato fin dall’infanzia a cercare la strada della valorizzazione ed esibizione sociale del Sé, tragga origine dal proposito di raggiungere l’ammirazione […][4].

Questa realtà socioculturale sembra che possa prendersi cura di noi e dei nostri figli attraverso il rispecchiamento e il conforto della visibilità offerta dai dispositivi tecnologici. L’eccezionalità e l’unicità dell’individuo sembrano garantite, ma la costruzione del Sé è fragile, se pensata come proiezione nell’etere. Ci aiutano le parole di Emanuele Trevi – che colgo nel testo in appendice al romanzo di Giuseppe Berto Il malo oscuro, riferite alla conclusione dello Zibaldone di Giacomo Leopardi –, quando dicono: “Chi ancora non conosce la vita, insomma, confida nell’«eccezione», e nella possibilità di vivere «per modo di eccezione». […] Rendersene conto è una forma del disincanto alla quale collabora attivamente la società, provvedendo ad eliminare nei giovani un’illusione, addirittura una «mirabile disposizione della natura». […] Ci penserà il tempo, ovviamente, a dimostrare quanta poca «eccezione» sia disponibile al di fuori dei romanzi e della poesia. Fino al giorno in cui si rimane attoniti, come si è detto,  constatando il sovrano potere della «regola generale» sul «caso proprio» che non è altro che una sua variabile e in ultima analisi una sua conferma.”[5]

Le relazioni psicoterapeutiche che curano attraverso l’ascolto, l’osservazione, l’accoglimento delle emozioni delle persone, dei loro silenzi, del loro pianto e dei sorrisi illuminati, consentono di andare verso il riconoscimento di sé, dei propri limiti e anche del sentimento di compassione che permette di accettare il senso della colpa. “Tradotto in una delle molteplici metafore psicoanalitiche – scrive Pietropolli Charmet – si potrebbe parafrasare così: l’affievolirsi del potere del Super-Io ha consentito agli ideali dell’Io di farsi avanti senza più tenere in nessun conto i valori e le regole, le ingiunzioni e le minacce provenienti dal Super-Io esausto, ormai del tutto accasciato ed incapace di arginare l’avanzata tronfia e saccente degli ideali dell’Io […]”[6]. Quindi, interrompere la rincorsa alla via di fuga narcisistica in grado di alimentare sine die la dignità di sé può aiutare ad evitare il crollo narcisistico dell’individuo, che può avere conseguenze a volte drammatiche.

Allora, insieme, sarà raggiunto un obiettivo nella cura: quando all’individuo l’esperienza non apparirà più eccezionale e non si identificherà più con la sua unicità, ma potrà fare “un passo indietro” e sentire che finalmente è comune alla vita.


[1] Nota ai margini del tema, Sine cura. Riflessioni sulla cura, incontro online, «Zolla-Aps» 6 febbraio 2021.

[2] Alberto FRACCACRETA, Amava tutte le creature, perciò amo San Francesco, in «La Lettura» 24 gennaio 2021, p. 18.

[3] Gustavo PIETROPOLLI CHARMET, L’insostenibile bisogno di ammirazione, Laterza, Bari-Roma 2018, p. 46.

[4] Ivi, p. 47.

[5] Emanuele TREVI, Lo stile psicoanalitico di Berto, in Giuseppe Berto, Il male oscuro, Neri Pozza, Vicenza 2016, p. 354.

[6] Gustavo PIETROPOLLI CHARMET, L’insostenibile bisogno di ammirazione, cit., p. 52.

“A caccia di uno spazio vuoto”

“Sarebbe giusto che si andasse a caccia di uno spazio vuoto da non riempire”, scriveva Gillo Dorfles[1] a proposito degli spazi urbani; una riflessione che Aldo Carotenuto utilizza nel terzo capitolo intitolato Il sacrificio di una scelta del volume Vivere la distanza[2], in risposta all’ideale di un tempo tutto pieno, indifferenziato e saturo di continue attività. Gli spazi aggregativi anonimi, i non-luoghi, definiti così dall’antropologo Marc Augè nel 1992, si estendono anche al tempo, “col dissolversi dei limiti tra il giorno e la notte, con la presenza continuativa dei programmi televisivi, con gli orari non-stop dei centri commerciali”.[3] Il tempo presente, con la condizione forzata della pandemia, ci costringe all’interno delle nostre case, rovescia il fuori con il dentro, e ci impone il cambio di maschera richiesta dai ruoli connessi sia con l’esterno attraverso il web, sia con le funzioni familiari domestiche. Possiamo vedere “l’isolamento” come l’opportunità di contrastare la paura della solitudine, quella tendenza che ci ha portato a sterilizzare le emozioni e ha impoverito la qualità dei rapporti tra individuo e individuo, traducendo i nostri comportamenti in una vorace e insaziabile ricerca di nuovi confini distorcendo il senso del limite. Una condizione umana che condanna l’individuo ad una scissione tra l’onnipotenza del pensiero e la frustrazione della realtà con i correlati patologici di maniacalità e depressione. Ci troviamo ora in una condizione in cui la società (noi) deve fungere da regolatrice dei comportamenti, contribuendo a dissipare il disorientamento e sollecitare il sentimento di appartenenza alla comunità solidale. Il senso della solitudine “nasce dalla consapevolezza che ciò che definisce e conferma la nostra identità non è certo quell’insieme anonimo di convenzioni sociali e compiti stereotipati che possono servire tutt’al più a etichettarci e catalogarci, ma qualcosa di assai più profondo e vitale con cui dobbiamo trovare un contatto”.[4] Il nostro sacrificio sarà quasi certamente ricompensato dalla possibilità di recuperare l’essenza autentica di quanto ci sta attorno, come bambini, soli in presenza di qualcuno. Di questo tempo possiamo vedere anche la bellezza della noia; in fondo, “la solitudine, affermava Jung, non deriva dal fatto di non avere nessuno con cui parlare, ma dalla consapevolezza che ciò che costituisce di noi il nucleo più intimo e profondo, ciò per cui siamo noi e non altri, è incomunicabile. È questa la vera, fondamentale esperienza della solitudine […].”[5] Se la condizione dell’universalità rivela la sua radice individuale, questa può essere un’opportunità per costruire una visione personale della nostra esistenza.


[1] Gillo DORFLES, L’intervallo perduto, Milano, Feltrinelli, 1989, p.13.

[2] Aldo CAROTENUTO,Vivere la distanza, Milano, Bompiani, 1998.

[3] Ivi, p.24.

[4] Ivi, p.29.

[5] Ivi, p.27.

Chi sono io, per te?

Chi sono io, per te? È una domanda che nell’imminente festa di San Valentino gli innamorati rivolgono a loro stessi, in trepidante attesa di un gesto, di un dono, che riveli l’essenza della loro presenza allo sguardo dell’amata e dell’amato.

La ricerca della nostra identità, che passa sempre attraverso l’incontro con l’altro, si appropria della domanda: chi sono io? E Concita De Gregorio in uno dei suoi recenti lavori intitolato “Chi sono io? Autoritratti, identità, reputazione”[1] ha affrontato il senso della questione riportando la testimonianza di alcune protagoniste della fotografia femminile impegnate nel cammino dell’autorappresentazione, che con l’autoritratto hanno dato forma alle loro storie interiori, alle loro paure e alle loro ossessioni.

In epoca di selfie è lecito chiedersi perché si ha la necessità di rivolgere l’obiettivo verso sé stessi, perché mostrarsi agli altri è così vitale. La reputazione di sé mediante il consenso dei social sembra essere diventata una consuetudine, una pratica mediatica che ha preso il posto del lavoro di conoscenza di sé che costruisce la propria identità. Sappiamo quanto è importante per gli adolescenti il giudizio degli altri, e la paura che il parere dell’altro sia di disapprovazione può essere paralizzante. Soprattutto se si parla di bellezza, più che di capacità intellettive che riguardano il successo sociale, perché la bellezza riguarda il successo sentimentale e sessuale, sia dei maschi sia delle femmine.[2] “In tutti i casi, che si tratti di un’emozione, di un giudizio, di una percezione o di una rappresentazione, lo stato affettivo che ne deriva è costituito da un mix di rabbia, innescata dal danno mal sopportato, di vergogna, che non è solo di indole sociale ma si irradia nelle relazioni interne alla mente, e di una radicale disistima nei confronti del valore della propria persona.”[3]

L’io, naturalmente, il senso di sé lo deve cercare, deve faticare nel trovare il proprio orientamento perché non è il collettivo che glielo conferisce; ed è corretto ricordare sempre che il cammino è individuale, ed è il percorso che diviene il luogo dell’incontro e della relazione tra l’io e il tu. La relazione è quindi un “atto artistico”, un momento creativo come lo è l’incontro tra il fotografo e l’obiettivo della macchina fotografica quando è rivolta verso sé stesso e crea l’immagine: un punto condiviso dell’identità. Ma per fare ciò “è necessario che l’io si determini dall’interno, di qualsiasi cosa parli il suo interno. Questo è l’atto di passaggio da Oggetto a Soggetto.”[4]

 


[1] Concita DE GREGORIO, Chi sono io? Autoritratti, identità, reputazione, Edizioni Contrasto, Roma, 2017.

[2] Gustavo PIETROPOLLI CHARMET, La paura di essere brutti. Gli adolescenti e il corpo, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2013.

[3] Ivi, p. 44.

[4] Roberta ROSSI, Donna Soggetto. Adattamento, desiderio e trasformazione, in: Il Maschile e il Femminile Oggi. Sguardi sul conscio collettivo. Atti del Convegno di Bologna 1 dicembre 2018, Temenos, 2019, p. 34.

La Donna al Centro

"La Donna al centro" nasce con l'intento di raggruppare diverse figure professionali volte a seguire le donne in un momento particolare della loro vita: la menopausa. Dolori articolari, alterazioni cutanee, osteoporosi, incontinenza urinaria sono solo alcuni dei sintomi.

Interverranno:

Dr. Isotta Caivano - Medico di base e specialista in agupuntura

Dr. Alessandra Fontanesi - Psicologa e Psicoterapeuta

Dr. Silvia Servadei - Ostetrica, specialista in riabilitazione del pavimento pelvico

Luca Fortini - Dr. in scienze motorie, specializzato in attività fisica adattata

T.O.P. Centro Medico di Posturologia Globale - Via Bologna 110/59 - San Giovanni in Persiceto (BO) - www.centroposturatop.it

16 marzo 2018 ore 19.00

Ritorno alle origini della femminilità: la menopausa

 

Chi ha paura della menopausa? Potremmo rivolgere a tutte le donne – e, perché no, anche agli uomini – questa domanda parafrasando l’opera teatrale del drammaturgo americano Edward Albee: Who’s Afraid of Virginia Woolf? scritta nel 1962. Chi ha paura di Virginia Woolf? è, nei fatti, un gioco di parole che richiama diversi contenuti; dalla canzone “Chi ha paura del lupo cattivo?” – cantata di quando in quando dai due protagonisti della pièce teatrale, il cui ritornello ricorda non solo la favola di Cappuccetto Rosso, ma quelle in cui il lupo è l’animale simbolo del dio Apollo, ideale di bellezza, ordine e perfezione –, all’elogio della scrittrice londinese.

La menopausa può offrire la possibilità di costruire una trama, ancora una volta, e di tessere il filo del sentimento della paura che appartiene sia all’identità femminile sia alla creatività, negli aspetti psicologici trasformativi propri delle fasi di passaggio della nostra vita.

Nelle donne che hanno superato i quarantacinque cinquanta anni di età, e nelle quali i disagi della menopausa si sono fatti strada attraverso il linguaggio dei sintomi, il desiderio di iniziare un percorso analitico può servire a contrastare la paura del cambiamento, e fare breccia nella mente per nominare i bisogni non ascoltati e per risignificare le relazioni che hanno abitato il proprio passato.

L’evento psichico della menopausa è legato alla sessualità della donna, la cui vita amorosa è molto spesso vissuta in funzione della riproduzione e della maternità. Nonostante i cambiamenti culturali abbiano contribuito ad aumentare le aperture sociali fortemente volute dal pensiero femminile, nella fantasia della donna i rapporti sessuali faticano a trovare spazio, anche quando il suo corpo si presenta sano e attraente grazie alle ricerche farmacologiche e della cosmesi, e alle abitudini apprese dalla conduzione di un’attività sportiva.

La menopausa non è una malattia, ma un’esperienza psichica importante per la donna che si trova ad affrontare l’età matura, nell’individuazione della propria nuova soggettività. E la cura che la donna consapevole riserva per sé è da inquadrare, secondo il pensiero psicoanalitico, nel passaggio dal corpo aperto della generatività al corpo femminile da scoprire grazie alla mancanza.

La costruzione del desiderio femminile è sempre rinnovata per la donna che, dalla nascita, si impegna a tessere il proprio spazio, a farsi corpo animato, all’interno della famiglia prima e della società poi.

 

Per approfondimenti, si possono leggere i seguenti contribuiti:

Maria Vittoria Ludovichi, La menopausa: una fantasia della donna, in «Pol.it» (06.10.2012) <www.psychiatryonline.it>.

Maria Luisa Vallino, L’Universo immaginale femminile: Percorsi analitici nella seconda metà della vita, in «Maria Luisa Vallino. Percorsi della psiche» (11.10.2013) <www.marialuisavallino.it>.

 

L'importanza di perdersi nel bosco

http://www.doppiozero.com/autore/Giovanna-Zoboli

 

Giovanna Zoboli

Dopo l'attentato di Manchester, nel quale al termine di un concerto di Ariana Grande sono rimasti uccisi numerosi ragazzi la maggior parte dei quali ancora minorenni, come dopo ogni atto di terrorismo su media e social network è circolata la domanda “Come spiegare gli attentati ai bambini”. Famiglia Punto Zero, social di promozione culturale della genitorialità e approfondimenti tematici sulla famiglia, ha girato la domanda a Nadia Terranova, scrittrice per adulti e ragazzi, che tiene una bella pagina dedicata alla letteratura per l'infanzia sull'inserto Robinson. «Il problema – ha risposto Terranova – non è svegliarsi ogni volta e chiedersi come spiegare gli attentati ai bambini, il problema è che bambini a cui le favole sono state edulcorate, a cui non si può più leggere niente perché “è troppo difficile”, che non hanno più un'elaborazione simbolica della paura perché i grandi hanno paura della loro paura, sono infinitamente più fragili. E il problema non è la cronaca o una soluzione-medicina all'indomani di ogni fatto di cronaca, ma un immaginario indebolito da rifortificare.»

 

Centra il punto Terranova. Dietro la fragilità dei bambini c'è quella di un mondo incapace di offrire una sponda al problema del Male: l'infinita fragilità di adulti, voraci consumatori di falsi miti di massa e di ogni genere di impostura, oggi, in aggiornata versione fake news, ma, si direbbe, incapaci di sguardo sulla realtà, come testimoniano continui episodi, ultimo dei quali la vicenda del bambino morto di otite. La questione non è nuova. L'ambientalista Ed Ayres spiega che «un modello generale di comportamento tra le società umane è quello di diventare, via via che s'indeboliscono, più cieche alla crisi, anziché più attente.» E tuttavia, nel tempo, questa difficoltà a incontrare il reale, evidente in tutti gli ambiti delle nostre vite e della nostra società, paradossalmente si manifesta in campo educativo, a scuola, in famiglia, e ovunque vi siano bambini, in una calcificata resistenza nei confronti della finzione letteraria e del suo potere catartico, ove la letteratura non si configuri esclusivamente come attività di intrattenimento, ma diventi pratica di ricerca di senso.

 

Sono le fiabe, in particolare, a essere le prime vittime di questa lugubre e ostile diffidenza. Dopo qualche migliaio di anni, la più perfetta fra le finzioni, il più celebre degli incipit, C'era una volta, garanzia di distanza, e quindi di elaborazione simbolica, fra realtà del presente e passato della fiaba, non convince più. Una ipotesi potrebbe essere che essendo gli adulti sempre più incapaci di distinguere fra realtà e finzione, individuino nella finzione letteraria, che obbliga il lettore a sospendere temporaneamente la propria incredulità, un potenziale innesco a traumi e comportamenti devianti, temendo che la fiaba funzioni da miccia a paure incontrollate e dannose alla crescita, come se i bambini apprendessero dell'esistenza della paura dalle fiabe e non la sperimentassero in prima persona nella propria esperienza quotidiana.

 

 

Illustrazione di Fabian Negrin, da Grimm, Tutte le fiabe, Donzelli 2105

 

Già i Fratelli Grimm, a stare ai loro carteggi, si lamentavano del problema, osservando che il perbenismo dei lettori li costringeva a sistematiche ripuliture dei testi orali raccolti durante il loro lavoro di ricerca. E in effetti le loro Fiabe o Märchen, come le leggiamo oggi, sono il risultato di ben sei edizioni nelle quali si procedette a successive riscritture per adeguarle al gusto del pubblico borghese, disturbato dal perturbante delle narrazioni popolari.

Oggi, il grande interesse per le fiabe e il fiabesco di certa parte della cultura attraverso le ricerche di studiosi che negli ultimi anni hanno lavorato a divulgare la conoscenza delle fiabe e la loro importanza in ambito letterario ed educativo, permette di accedere a raccolte di fiabe di grande interesse, come la prima bellissima edizione dei Grimm, quella redatta fra il 1812-1815, che in Italia, intitolata Principessa Pel di Topo, curata da Jack Zipes e illustrata da Fabian Negrin, è stata edita da Donzelli nel 2012 (a questa è seguita quella integrale, Tutte le fiabe, del 2015).

 

Raccolte importanti a cui si dovrebbe attingere per letture ai bambini, prima ancora che ad adulti, senza timori e incertezze, poiché, come spiegano psicologi, antropologi, evoluzionisti, pediatri, educatori, la razza umana, adulti e bambini, da sempre hanno bisogno di sperimentare la paura, e la narrazione è uno dei sistemi più antichi ed efficaci perché questo avvenga, a livello simbolico, senza incorrere in pericoli reali.

 

In L'istinto di narrare, Jonathan Gotschal, nel terzo capitolo, L'inferno è amico delle storie, scrive: «Nel suo straordinario Come funziona la mente Pinker (teorico dell'evoluzione umana, ndr) sostiene che le storie ci dotano di un archivio mentale di situazioni complesse che un giorno potremmo trovarci a dover affrontare, unitamente a una serie di possibili soluzioni operative. Così come i giocatori di scacchi memorizzano risposte ottimali a un'ampia gamma di attacchi e difese, noi ci attrezziamo per la vita reale, assorbendo schemi di gioco funzionali». E più avanti: «La costante attivazione dei nostri neuroni in risposta a stimoli derivanti dal consumo di finzione narrativa rafforza e ridefinisce le vie neurali che consentono una navigazione competente nei problemi dell'esistenza. In questo senso siamo attratti dalla finzione narrativa non a causa di un'anomalia dell'evoluzione, ma perché la finzione è, nell'insieme, vantaggiosa per noi. Questo perché la vita umana, specialmente la vita sociale, è profondamente complessa e le poste in gioco molto alte. La finzione consente al nostro cervello di fare pratica con le reazioni a quei generi di sfide che sono, e sono sempre state, le più cruciali per il nostro successo come specie». La tesi di Gotschall in L'istinto di narrare è, infatti, che l'attitudine alla narrazione abbia determinato il successo della specie umana.

 

 

 

 

llustrazioni di Simone Massi, da Chiara Guidi, Buchettino, Orecchio Acerbo 2015.

 

Molto prima dei moderni studi antropologici, peraltro, nell'antica Grecia, filosofi e pensatori, a proposito di Poesia e Tragedia, interpretavano lo straordinario potere della finzione letteraria come catarsi. Ciò che avveniva durante la lettura di versi o sul palcoscenico induceva il pubblico a purificarsi, elaborando in profondità dilemmi etici, e vivendo intensamente come spettatori vicende che a tutt'oggi, nei teatri antichi di Siracusa, Taormina, Segesta, Epidauro, muovono le nostre coscienze e ci educano alla necessità della ricerca di senso.

Da alcuni anni Chiara Guidi, insieme alla compagnia teatrale Socìetas Raffaello Sanzio, si è fatta interprete di spettacoli che mettono al centro della scena le fiabe e i bambini, attraverso quello che ha definito “metodo errante”. Per innescare questo metodo, spiega «bisogna preparare un posto inerte, come le pagine di un libro. Il teatro è un’apparecchiatura spaziale e temporale che permette di far sorgere la figura. Sono i bambini a metterlo in moto con la loro presenza.»

 

Grazie a questa presenza e azione infantile si entra nella fiaba, nel racconto mitico, arrivando a toccarli, generando un atto di creazione, un’esperienza d’arte. Da questo metodo sono nate le esperienze teatrali delle Favole di Esopo (1992), di Hänsel e Gretel (1993), Buchettino (1995), Pelle d'asino (1996), Jack e il fagiolo magico (2013).

Fra i suoi spettacoli più noti, c'è Buchettino che Guidi in un'intervista del 2012 racconta così: «è una favola raccontata da una attrice messa dentro a una stanza di legno che diventa una grande cassa di risonanza dove, all’esterno, dei tecnici rumoristi fanno i rumori della favola: suonano la favola. I bambini sono a letto coperti con delle coperte: cinquanta bambini, cinquanta coperte, cinquanta lenzuoli, cinquanta cuscini, e il letto diventa una barca, e diventa anche il luogo della protezione, perché se ho paura mi copro con la coperta, consapevole che quella coperta diventa una corazza che mi protegge. Non c’è nulla da vedere: però, ascoltando, è possibile vedere. I bambini oggi ascoltano poche favole, le favole non sono più favole della tradizione perché queste sono favole che fanno paura e non possono essere raccontate ai bambini. Si può far vedere il male attraverso la società dello spettacolo ed escludere invece la catarsi della favola che sempre porta il lieto fine. Sarebbe necessario un ritorno dei bambini a favole che sono l’espressione di un’esperienza che conduce attraverso la vita della favola alla vita possibile futura di un bambino che diventerà adulto.» La grande intuizione di questa rappresentazione, in un momento storico in cui i bambini sono accuratamente tenuti lontani dalle fiabe, è mettere al centro dell'azione scenica i bambini come ascoltatori di fiabe, spettatori, ma dentro il corpo stesso della fiaba, nel suo pericolo, attivamente impegnati a ricrearla con l'immaginazione, seguendo la narrazione orale e l'andamento sonoro della vicenda.

 

 

llustrazione di Arianna Vairo, da Silvia Vecchini, In mezzo alla fiaba, Topipittori 2105.

 

La storia di Buchettino, che poi è quella di Pollicino ovvero Le petit poucet di Charles Perrault (Buchettino è il titolo della versione toscana) come è stata portata in scena da Chiara Guidi, con l'adattamento di Claudia Castellucci, è stata pubblicata da Orecchio Acerbo nel 2015 in una bella edizione con le illustrazioni di Simone Massi.Per origine, storia e natura le fiabe si prestano più di ogni altro genere letterario a rielaborazioni, metamorfosi, riscritture attraverso i medium più diversi: dal teatro al cinema, al fumetto, alla poesia, all'illustrazione, alla danza, alla musica. Questa estrema duttilità è una grande risorsa dal punto di vista educativo, poiché permette di proporre ai bambini una quantità di varianti e di linguaggi che diventano ottimi strumenti di ri-narrazione e indagine. Il linguaggio in cui si sceglie di raccontare una fiaba, infatti, determina la forma stessa della narrazione portando, ogni volta, a galla delle vicende aspetti che in altre versioni rimangono impliciti, nascosti.    

Nella raccolta poetica In mezzo alla fiaba, edita da Topipittori nel 2015 con illustrazioni di Arianna Vairo, Silvia Vecchini decostruisce venti fiabe della tradizione per ricostruirle attraverso venti composizioni poetiche. La prima volte che le lessi, rimasi folgorata dal testo che dedicò a Pollicino, poiché non avevo mai realizzato consapevolmente, ma solo inconsciamente, quale fosse il suo centro tensionale:

 

Se tuo padre è un orco

non ti basterà dormire

indossando una corona

la violenza è cieca

il coltello non ragiona.

 

 

llustrazione di Arianna Vairo, da Silvia Vecchini, In mezzo alla fiaba, Topipittori 2015.

 

Al cuore di questa vicenda, Vecchini mette, anziché l'abbandono dei figli nel bosco da parte dei genitori afflitti da una miseria senza scampo, l'eccidio delle orchessine uccise dal padre-orco al posto di Pollicino e dei suo fratelli che scambiano i loro cappelli con le corone delle bambine, condannandole a morte e ingannando l'orco. Nell'illustrazione che Gustave Doré dedicò a questo momento della fiaba vediamo le orchessine che dormono tutte insieme in un grande letto cosparso di ossa. Accanto a questo, specularmente, il lettore immagina il letto in cui dormono Pollicino e i suoi fratelli. È certo che in questa fiaba lo stare a letto di bambini e bambine è fortemente implicato con il tessuto stesso della storia, ed è certamente anche questo che rende la messa in scena di Chiara Guidi così potente e liberatoria.

 

 

Illustrazione di Gustave Doré, da Le contes de Perrault, J. Hetzel, Libraire-Editeur 1862.

 

La fiaba di Pollicino di Perrault ha numerosi punti di contatto con quella di Hänsel e Gretel dei Grimm, in particolare nella parte iniziale che procede identica: la decisione dei genitori di abbandonare i figli a causa della miseria, l'abbandono nel bosco, lo stratagemma dei sassolini bianchi per ritrovare la strada di casa, e poi quello, fallimentare delle briciole mangiate dagli uccelli, che decreta lo smarrimento dei bambini e il pericolo di essere mangiati nel primo caso dalla strega, nel secondo dall'orco. Silvia Vecchini nella poesia in cui riscrive Hänsel e Gretel mette al centro della scena il vincolo di salvezza che stringe fratello e sorella:

 

A tutti servirebbe un fratello

che nel momento più scuro

esca di nascosto e si riempia le tasche,

che nel bosco resti al tuo fianco

e lasci cadere a ogni passo

un sassolino bianco.

 

Se in Pollicino, infatti, sono le doti straordinarie del più piccolo dei fratelli e apparentemente incapace, a salvare gli altri, inetti, qui il lieto fine è sancito dalla collaborazione dei due bambini, ugualmente impegnati nel salvarsi reciprocamente la vita. Sottolinea questo significato anche Bruno Bettelheim che in Il mondo incantato dà una lettura di grande interesse di Hänsel e Gretel, in cui l'accento è posto sulla necessità dei bambini di affrontare il bosco per crescere, conquistare l'autonomia, liberandosi, attraverso il pericolo corso e superato, dalla tendenza regressiva a rifugiarsi nella casa e nel supporto dei genitori.

 

 

 

 

Illustrazioni di Lorenzo Mattotti, da Hänsel e Gretel, Gallimard Jeunesse 2009.

 

Uscita nel 2009 per Gallimard Jeunesse e in Italia edita da Orecchio Acerbo, Hänsel e Gretel, attraverso le insuperabili illustrazioni di Lorenzo Mattotti, che tocca qui uno dei suoi punti più alti, è davvero “la fiaba per eccellenza” come l'ha definita Chiara Guidi: un percorso attraverso il buio e la luce che segna la crescita come capacità di riconoscere e opporsi al Male e superare il pericolo con le proprie forze. Dev'essere questa eccellenza la ragione per cui questa fiaba non smette di esercitare il suo fascino su disegnatori e illustratori.

L'ultima versione edita in Italia è uscita per Canicola che inaugura con questo Hänsel e Gretel, della tedesca Sophia Martineck, la collana di fumetti “Dino Buzzati” dedicata ai bambini. Fedele alla versione dei Grimm, Martineck nelle illustrazioni attualizza interni e abiti dei protagonisti: la casa dei genitori ha una moderna cucina a gas, un lavello di acciaio e i bambini indossano giacca a vento ed eskimo. Fiabesco rimane il bosco, antico e senza tempo, intrico di ombre e tronchi, dove la casa della strega si manifesta come un'allucinazione.

 

 

 

 

 

 

 

Sophia Martineck, Hänsel e Gretel, Canicola 2017.

 

Il modo di narrazione del fumetto che racconta in forma dialogica, porta in primo piano la crudezza della vicenda attraverso le parole che si scambiano genitori e figli. La sbrigativa menzogna con cui vengono lasciati soli nel bosco urta contro la drammatica consapevolezza dei bambini, e del lettore, che sanno bene che la promessa di tornarli a prenderli dopo il taglio della legna è destinata a non compiersi. Ugualmente interessanti sono i dialoghi dei bambini, le loro parole sempre affettuose, fiduciose, speranzose anche nello spavento: fiabesche, insomma, quanto il bosco atemporale, analogia che sottolinea quanto l'infanzia appartenga a una dimensione profondamente radicata nella natura e nei suoi simboli.

 

Del Pollicino di Perrault, invece, nella versione dei Grimm non rimane niente, se non il titolo e il tema del bambino piccolissimo che riesce a superare ogni sorta di avventure con grande scaltrezza. È una fiaba allegra, scanzonata questa, da poco pubblicata in Italia da Quodlibet/Ottimomassimo nel volume Fiabe a fumetti, scritte e disegnate da Rotraut Susanne Berner, vincitrice lo scorso anno dell'Hans Christian Andersen Award. Fiabe a fumetti raccoglie otto fiabe dei Grimm, trasposte nel segno limpido, aggraziato e umoristico caratteristico della grande autrice tedesca. È infatti la bellezza visiva del fiabesco a fare la parte del leone in questo libro, in cui le storie sono rese in massima sintesi, una sorta di morfologia della fiaba alla maniera di Propp, in cui i bambini più piccoli, aiutati dallo stampatello, potranno familiarizzare con le trame delle storie e i loro protagonisti, osservando e divertendosi a osservare analogie e differenze delle trame. Benché i contenuti paurosi delle vicende qui non siano censurati, come invece spesso avviene in numerose mortificanti riduzioni in commercio, è straordinario osservare come il fascinoso immaginario nordico a tinte cupe dei Grimm subisca una metamorfosi che lo porta ad avvicinarsi alla luminosa e ludica allegria delle Fiabe italiane curate da Italo Calvino. Come se in questa autrice nata in Germania, come in tanti suoi conterranei prima di lei, covi una segreta passione per la luce mediterranea, e la disposizione al comico del suo folklore.

 

 

 

 

Rotraut Susanne Berner, Fiabe a fumetti, Quodlibet 2017.

 

Fra il 1970 e il 1972, uno fra i più grandi illustratori del Novecento, Maurice Sendak realizzò una serie di illustrazioni per una selezione delle fiabe dei Grimm, edite poi nel 1973 da Farrar, Straus and Giroux con il titolo The JuniperTree. Per avvicinarsi alle storie e al loro immaginario, Sendak fece un lungo viaggio in Europa e in Germania, e un'accurata ricerca sugli stilemi della pittura tedesca, in particolare su Dürer. Quando il libro uscì, ci furono parecchie critiche riguardo al modo che aveva scelto per rappresentarle. Piuttosto contrariato, l'autore spiegò che più che “rappresentare” la storia, aveva voluto puntare al suo lato oscuro, sotterraneo: a quello, cioè, che la storia non dice, o meglio, dice nascostamente. Di queste fiabe gli interessava «cogliere il momento in cui la tensione fra storia ed emozione è perfetta, così che il lettore leggendo, possa sorprendersi, pensando che si tratta 'semplicemente' di una favola.» Ai molti che giudicarono queste immagini claustrofobiche, cupe, poche adatte ai bambini (che peraltro hanno sempre amato follemente il lavoro di Sendak come dimostra la fortuna dei suoi libri in tutto il mondo) affermò: «Credo che i bambini intuiscano il significato profondo di ogni cosa. Sono solo gli adulti che per la maggior parte del tempo leggono la superficie. Sto generalizzando, naturalmente, ma le mie illustrazioni non sorprendono i bambini. Loro sanno cosa c’è in queste storie. Sanno che matrigna significa madre, e che il suffisso -igna è lì per evitare che gli adulti si spaventino. I bambini sanno che ci sono madri che abbandonano i loro bambini, emotivamente, non letteralmente. Talvolta vivono con questa realtà. Non mentono a se stessi. E vorrebbero sopravvivere, se questo accade. Il mio obiettivo è non mentire loro.»

 

Sendak aveva ragione, naturalmente. Oggi sappiamo che l'ingresso della matrigna nella fiaba di Hänsel e Gretel, si dovette ai malumori del pubblico ottocentesco che nella madre della fiaba, attivapromotrice nell'abbandono dei figli, videro compromessa e infangata la figura materna, che invece si pretendeva intatta, nella sua tradizionale funzione di accudente angelo del focolare. Per questo le parole di Sendak risultano tanto più veritiere, lucide. Non mentire ai bambini significa anzitutto per gli adulti non mentire a se stessi, recuperare la possibilità di confrontarsi con la realtà, saperla leggere, incontrarla. Magari proprio a cominciare dalla finzione letteraria, dalle fiabe che come scrive Italo Calvino nella prefazione alla sua raccolta, «sono vere».

 

       

 

“200 e più domande e risposte sulla contraccezione e la contraccezione d’emergenza”[1]

 

 

In occasione della Giornata internazionale della contraccezione dello scorso 26 settembre, la Società italiana di ginecologia e ostetricia (Sigo) ha presentato alcuni dati allarmanti relativamente ai sistemi poco sicuri di contraccezione usati dal 24% di donne in età fertile del nostro paese, stimando che il 3,1% si affida alla fortuna, il 4,2% a metodi naturali e il 17,5% al coito interrotto. E se la pillola anticoncezionale (contraccezione ormonale) è utilizzata dal 16,2% delle donne, pare che tra le giovani sotto i 25 anni il 42% non utilizzi alcuna protezione durante la prima esperienza sessuale.

In un articolo della rubrica Salute di Tiziana Manacorda, sono riportate le parole di Emilio Arisi, medico ginecologo e presidente della Società medica italiana per la contraccezione (Smic), promotrice del sito di divulgazione mettiche.it, che in riferimento a queste tematiche attuali tracciano il seguente profilo:

           

“Rispondendo alle domande dei giovani mi rendo conto che c’è ignoranza anche da parte dei medici: a volte non si informano, e nonostante questo prendono posizione e danno indicazioni non corrette. […]. A questo aggiungiamo la quasi totale mancanza di dialogo tra genitori e figli su questi temi, e l’assenza di programmi scolastici strutturati di educazione sessuale. È normale che i giovani siano spiazzati e angosciati. Riescono ad accedere a molte informazioni grazie a Internet, ma poi non hanno gli strumenti per valutarle e per inserirle nei giusti contesti.” [2]

  

Negli ultimi tre anni sono arrivate a questo sito più di diecimila domande, a testimonianza del bisogno di chiarezza sui temi della sessualità. La necessità di ricevere delle risposte attendibili restituisce uno spaccato della nostra società, costituita da tante e differenti realtà culturali in cui vacillano le certezze relative alla consapevolezza, da parte dell’individuo, di essere un corpo vivente e di averne il diritto e dovere della cura. Sappiamo che è nella relazione con l’altro che inizia a prendere forma il nostro corpo e la psiche che lo abita, per questo dobbiamo, ancora e sempre, interrogarci sulla importanza dell’efficacia delle relazioni umane e, in questo particolare specifico, di quella che dà vita al mondo affettivo della coppia, per non avere paura di chiedere e di formulare i dubbi che si presentano.

 

Se nel caso di rapporti non protetti e di rischio di gravidanza non voluta l’unico consiglio è di non aspettare ad assumere il farmaco contraccettivo d’emergenza, con la raccomandazione che la ricetta serve solo alle minorenni e può essere prescritta da qualsiasi medico, anche nei consultori e nei pronto soccorso (il medico che si oppone può rischiare una denuncia), i principi attivi sono due e diversificano i due tipi di farmaci disponibili con efficacia differente: levonorgestrel (compressa da 1,5 milligrammi il cui nome commerciale può essere Norlevo piuttosto che Stromalidan o Escapelle. Le cosiddette pillole dei tre giorni dopo, da assumere entro le 72 ore, al massimo, dal rapporto non protetto) e ulipristal acetato (compressa da 30 milligrammi dal nome commerciale EllaOne, chiamata la pillola dei cinque giorni dopo, da assumere entro le 72 ore). Le pillole sono acquistabili in tutte le farmacie, senza ricetta, da parte di tutte le persone maggiorenni (anche da un uomo con delega e documento di identità della donna richiedente).

 

“Per decidere quale farmaco assumere – prosegue il dottor Emilio Arisi – è importante anche sapere che i due principi attivi hanno un’efficacia diversa nel prevenire la gravidanza: nel caso del levonorgestrel si va dal 52 al 94 per cento, mentre l’ulipristal acetato funziona nel 98 per cento dei casi. Il levonorgestrel, inoltre, blocca o sposta l’ovulazione di alcuni giorni solo se questa non è imminente, mentre l’ulipristal acetato agisce anche quando è prossima. Per riassumere, l’ulipristal acetato è più efficace del levonorgestrel. Nessuno dei due ha invece effetto su una gravidanza già cominciata. È importante anche sapere che i contraccettivi d’emergenza non proteggono dagli effetti dei rapporti sessuali successivi all’assunzione, ma solo da quelli che l’hanno preceduta: presumibilmente la copertura permane per 24 ore, ma diminuisce in fretta, e nel giro di tre giorni non vi è più traccia del farmaco nel corpo. Se necessario, è possible assumere un’altra pillola d’emergenza nello stesso ciclo ovulatorio.”[3]

 

Per avere ulteriori  informazioni è possible consultare i siti www.sceglitu.it  e www.mettiche.it dal quale è scaricabile gratuitamente l’e-book: 200 e più domande e risposte su contraccezione e contraccezione d’emergenza.

 

 

 

[1] E. Arisi, 200 e più domande e risposte su contraccezione e contraccezione d’emergenza, Società medica italiana per la contraccezione, e-book, 2006.  http://www.west-info.eu/it/contraccezione-le-donne-italiane-si-affidano-alla-fortuna/smic-200-e-piu-domande-e-risposte-su-contraccezione-e-contraccezione-demergenza-2016/ 

[2] T. Manacorda, Tutto sulla pillola del giorno dopo, in «D La Repubblica» 29 ottobre 2016, p. 157.

[3] Ivi, p. 158.

“Che cos’è una religione?”

 

Che cos’è una religione? Si domandò Jung rivolgendosi al suo pubblico durante la quinta e ultima conferenza del ciclo che tenne tra il 30 settembre e il 4 ottobre del 1935 alla Clinica Tavistock di Londra, su invito di James Arthur Hadfield (1882 – 1967). E rispose:

 

“Una religione è un sistema psicoterapeutico. Che facciamo, noi psicoterapeuti? Cerchiamo di guarire le sofferenze della mente umana, della psiche o dell’anima umana, e le religioni affrontano lo stesso problema. […]. Non faccio un gioco di parole quando definisco la religione un sistema psicoterapeutico. È il sistema più elaborato, e si fonda su una grande verità di ordine pratico.”[1]

 

Jung riferì ai suoi illustri colleghi presenti quanto fosse esigua la percentuale di pazienti cattolici avuti negli ultimi trent’anni di lavoro, rispetto alla stragrande maggioranza di ebrei e di protestanti. Raccontò che mandò un questionario a persone che non conosceva con il quesito: “Se avete dei problemi psicologici, cosa fareste? Andreste dal medico, oppure dal prete o dal pastore?” Bene, il 60% circa di cattolici rispose che si sarebbe rivolto sicuramente ad un prete, mentre il 20% circa dei protestanti che sarebbe andato da un pastore. I più contrari erano i parenti e i figli di pastori. Un cinese gli rispose con molta eleganza che da giovane sarebbe andato da un medico e da vecchio avrebbe preferito un filosofo. Tutti gli altri erano favorevoli al medico. Ma la grande percentuale dei cattolici dimostrava che la Chiesa cattolica in particolare, con il suo sistema rigoroso della confessione, si poneva come istituzione terapeutica. Dice Jung:

 

“Credo sia perfettamente corretto usare queste istituzioni psicoterapeutiche che la storia ci ha dato, e rimpiango di non essere un uomo del Medioevo, che potrebbe aderire ad un simile credo. Sfortunatamente occorre una psicologia medievale per riuscirvi, e io non sono sufficientemente medievale. Ma questo vi dimostra come io prenda sul serio le immagini archetipiche e una forma adeguata delle loro proiezioni, poichè l’inconscio collettivo è un fattore veramente importante della psiche umana. […]. Tutti gli elementi personali come le tendenze incestuose e le altre storielle infantili non sono che la superficie; quello che realmente racchiude l’inconscio sono i grandi eventi collettivi del tempo. La storia si forma proprio nell’inconscio collettivo dell’individuo e quando gli archetipi vengono attivati ed emergono in un gran numero di individui, ci troviamo nel cuore della storia, come ora. […]. Chi avrebbe mai immaginato nel 1900 che trent’anni dopo potesse accadere in Germania quello che sta accadendo adesso? Avreste creduto che un’intera nazione di persone intelligenti e colte sarebbe caduta vittima del potere ammaliante di un archetipo? […]. È impossibile resistervi. È qualcosa che ti prende sotto la cintura e non nella testa, il cervello non conta assolutamente nulla, è il sistema simpatico che è stretto nella sua morsa, è un potere che affascina le persone dal di dentro, è l’inconscio collettivo che viene attivato, è un archetipo comune a tutta quella gente, che è tornato in vita. E poichè è un archetipo, ha aspetti storici e non possiamo capire gli eventi senza conoscere la storia.”[2]  

 

Tenere conto dell’importanza dei valori impersonali, quali sono gli archetipi, consente al paziente di aderire al suo credo religioso, alla sua Chiesa o a qualsiasi altra cosa. Riuscire a far confluire la sua esperienza dell’inconscio collettivo in una forma di religione consente alle immagini archetipiche di confluire in una struttura che le contenga. Riconoscere il valore della storia, e degli archetipi che ancora la mantengono lingua viva e multietnica, assomiglia al grande lavoro che l’etnopsichiatria dei capostipiti della scuola francese Georges Devereux (1908 – 1985) e Tobie Nathan (1948), svolge oggi nel setting etnopsicoanalitico, in cui terapeuti di varie culture, insieme ad un mediatore culturale, accolgono il paziente migrante riconnettendolo con parte della sua famiglia, con il suo gruppo e la sua storia di appartenenza. Storia che è natura prima di essere cultura.

Jung ha definito l’oggettivazione delle immagini impersonali il quarto stadio del trattamento della traslazione tra paziente e terapeuta, quale componente del processo di individuazione, che ha come fine la liberazione della coscienza dall’oggetto. Una pratica che consente all’individuo di non ricercare la felicità in fattori esterni a lui, ma trovare in se stesso il centro di gravità. Scrive Jung:

 

“Raggiungere tale stato di distacco è il fine delle pratiche religiose dell’Oriente ed è perseguito anche dagli insegnamenti della Chiesa. Nelle varie religioni il Tesoro è proiettato nelle figure sacre, ma questa ipostatizzazione non è più possible per la moderna mente illuminata. Moltissimi individui non sono più in grado di esprimere i loro valori impersonali in simboli storici.”[3]

 

La nevrosi è la conseguenza della scissione tra la funzione psicologica che si è fatta carico di dare forma alle immagini impersonali e l’individuo stesso. E la religione, fin dall’alba della coscienza, è stata la forma che ha oggettivato tali immagini mantenendo saldo il vincolo con l’uomo. Jung scrive che la nostra psicologia ha una coda molto lunga che assomiglia a quella dei sauri, che equivale all’intera storia della nostra famiglia, della nostra nazione, dell’Europa, e di tutto quanto il mondo. Ed è quello che scordiamo sempre:

 

“Scordiamo ogni volta che la nostra coscienza è solo la facciata, l’avant-garde della nostra esistenza psicologica. La nostra testa non è che un’estremità, ma dietro la nostra coscienza vi è la lunga “coda” storica di esitazioni e debolezze e complessi e pregiudizi e retaggi, e sempre facciamo i conti senza di loro. Pensiamo ogni volta di poter tirare diritto nonostante le nostre carenze, ma quelle gravano su di noi e spesso ci fanno deragliare prima di aver raggiunto la nostra meta perchè ci siamo dimenticati della “coda”.”[4]

 

 

[1] C.G.Jung (1935), Fondamenti della psicologia analitica, in Opere, Vol XV, Torino, Bollati Boringhieri, 1991,  p. 167.

[2] Op. cit., pp. 168-169.

[3] Op. cit., p. 171.

[4] Op. cit., p. 93.

La scelta difficile di diventare madre

 

di

Michela Marzano

 

IL TEMPO che passa inesorabile, la maternità che sfuma, niente figli, è troppo tardi, ci si doveva pensare prima, ma di che simpiccia ora il governo, come si permette, cos’è questintrusione nella nostra vita, nella nostra sfera privata e intima? E allora sono bastate poche ore, e una pioggia di critiche, per ottenere il dietrofront del ministero della Sanità sul Fertility Day e convincere la ministra Lorenzin a ripensare completamente la campagna di prevenzione sanitaria sullinfertilità. Non perché il problema della denatalità non esista oggi in Italia, anzi. Semplicemente perché, prima ancora di parlare di fertilità e infertilità, forse sarebbe meglio chiedersi come sia cambiata la maternità in questi ultimi decenni, e interrogarsi sui motivi profondi che hanno fatto sì che tante donne di quaranta o cinquantanni non abbiamo mai (o ancora) avuto figli. Non si dovrebbe daltronde ricominciare proprio da lì, da ciò che significa oggi diventare madre che non è solo, o non più, fare figli, ma realizzare un desiderio, portare avanti un progetto di vita, sceglierlo e volerlo in modo consapevole (oppure anche decidere di lasciar perdere e di concentrarsi su altro)?

Un tempo, i figli arrivavano senza che le donne si ponessero troppe domande. Si facevano figli perché era così che facevano tutti; si facevano figli perché, dopo essersi sposati o aver cominciato a convivere, era ovvio, scontato, normale, automatico, naturale, biologico, anche quando non si lavorava ancora, forse non si sarebbe mai trovato un posto a tempo indeterminato. I figli li si facevano, punto e basta. Ma questo era prima, appunto. Poi le cose sono cambiate il mondo, la cultura, le abitudini, le aspettative, i sogni, le esigenze, le ambizioni, i desideri. C’è stata la pillola e c’è stata la rivoluzione sessuale; c’è stata la realizzazione professionale e c’è stata lautonomia femminile; c’è stato il desiderio di viaggiare e c’è stata la ricerca dellamore. C’è stata, soprattutto, unevoluzione del significato stesso della maternità.

La logica, oggi, non è più quella dellavere figli, ma del diventare genitori, padri e madri responsabili che, al momento venuto, decidono, appunto, di fare della propria maternità o della propria paternità la realizzazione di un progetto di vita. E se poi non sono allaltezza del ruolo, non sono capace, sbaglio qualcosa? hanno cominciato a chiedersi tante ragazze, poi giovani donne, poi donne mature. Talvolta con lillusione che il tempo non sarebbe mai passato ora è meglio di no, meglio poi, avrò un lavoro sicuro, incontrerò la persona giusta, avrò i soldi per la casa, sarò maggiormente capace. Mentre il tempo passa inesorabile e, dopo un po, è veramente troppo tardi.

Checché se ne dica, lorologio biologico esiste purtroppo esiste, inutile rigirare il coltello nella piaga, come hanno fatto gli ideatori della campagna pubblicitaria sul Fertility Day, è anche per questo che tante donne hanno reagito male, anzi malissimo, io per prima, cera bisogno di buttare via tanti soldi per ricordarci quello che già sappiamo?

Lorologio biologico, dicevo, esiste. Esattamente come esistono le difficoltà della vita, le ambizioni frustrate, le relazioni che si sfasciano e i soldi che mancano per arrivare alla fine del mese. E poi non siamo cresciute un potutte con lidea che ci si sarebbe dovute prima di tutto realizzare professionalmente e che no, non avremmo fatto come mamma che è stata mamma e basta, oppure mamma e anche altro ma con tanti sacrifici, troppi, perché poi è sempre così, i padri scaricano le responsabilità e sono sempre le donne a dover pensare a tutto, la scuola e la ginnastica, i corsi di lingua e le vacanze, i vaccini e i cambi di stagione la famosa lista delle cose da fare, che poi possono anche essere fatte dai padri, ma se non sono le madri a redigerla questa benedetta lista, chi se ne occupa?

Prima il lavoro, quindi, magari ben retribuito perché altrimenti chi la paga la baby sitter o lasilo nido privato visto che i posti nel pubblico sono pochissimi. Prima la certezza di essere allaltezza del ruolo materno, quindi questo si fa, questo invece no, questo si dice questo non si pensa nemmeno, con tutte quelle madri perfetteche aprono blog e danno consigli, criticano, talvolta colpevolizzano anche. Prima la persona giusta, quindi. Tanto c’è tempo, no? Prima di rendersi conto che il tempo è scaduto. Oppure no, ma i figli non arrivano, magari si è sterili, magari è sterile il marito o il compagno, magari si è omosessuali, e le file dattesa per una procreazione artificiale sono lunghe, fino a poco fa linseminazione eterologa era vietata, una coppia omosessuale continua a non averci accesso.

Il problema della denatalità non lo si affronta con campagne pubblicitarie inopportune e imbarazzanti. Il non avere figli è un sintomo profondo, è il segnale del fatto che diventare madre è uno dei tanti desideri che si possono avere o meno, una delle tante scelte che si possono o meno fare, ma anche, talvolta, un desiderio profondo che non si realizza mai, una di quelle cose che sembravano evidenti quando si era piccole e che poi non capita, non accade, talvolta senza rendersi bene conto del perché. Come tanti desideri che ci si porta dentro e che non si realizzeranno mai, a volte si è persa lopportunità, altre volte non ci si è accorti del tempo che passava, altre volte ancora, forse, non era poi veramente un desiderio.

 

M. Marzano, La scelta difficile di diventare madre, in «La Repubblica» 3 settembre 2016, p. 31.

Margini del bene e del male

 

C’è una storiella che racconta di un confessore del Texas a cui si presenta un giovanotto dalla faccia molto cupa, al quale chiede:

“Di cosa si tratta?”

“E’ accaduta una cosa terribile!”

“Ma che cosa?”

“Assassinio”

“Quanti?”

“Se si vuole intendere su una questione complessa come quella del bene e del male, bisogna partire da qui: bene e male sono in sé principi, e dobbiamo tenere a mente che un principio esiste da molto tempo prima di noi e si estende molto più in là di noi.”[1]

Se ne può parlare con grande sicurezza, certi che il buono o il cattivo coincidano davvero con la cosa reale, senza sapere che la circostanza ha una qualità profonda che non conosciamo, oltre alla misura e alla gravità che il giudizio soggettivo attribuisce alla colpa. Scrive Jung:

“Da dove ci viene allora questa fede, questa apparente sicurezza di conoscere il bene e il male? “Eritis sicut Deus, scientes bonum et malum”. Soltanto gli dei lo conoscono, noi no. Ciò è straordinariamente vero anche dal punto di vista psicologico. Se uno prende un atteggiamento di questo genere: “Forse la tal cosa è mal fatta. Forse no”, allora avrà una chance di fare la cosa giusta, ma se sa già tutto in anticipo si comporta come se fosse un dio. Siamo soltanto uomini limitati e, in fondo, non sappiamo concretamente quello che in un determinato caso è bene o male. Lo sappiamo solo in astratto. Penetrare completamente una situazione compete soltanto a Dio. Forse possiamo farcene un’idea ma senza sapere se, in fin dei conti, sia valida. Tutt’al più possiamo dire prudentemente: secondo questo o quel metro, questo o quello è buono o cattivo. Qualcosa che qui da noi è giudicato cattivo può essere considerato buono altrove. Questa relatività nella valutazione vale anche in campo estetico: uno valuta un’opera d’arte moderna cosa di grandissimo valore ed è pronto ad acquistarla a caro prezzo; un altro non saprebbe che farsene.”[2]

Questo è un atteggiamento empirico, né teoretico né aprioristico, un atteggiamento che non anticipa ma costruisce partendo da un principio, da quanto era precedentemente, dall’origine. Se il principio è sempre di un ordine più alto, il bene e il male sono, secondo Jung, i principia del nostro giudizio etico, la cui radice ontica ci riporta agli aspetti di Dio:

“[…]in una situazione a tonalità affettiva, mi scontro con un fatto o con un accadimento paradossale, mi scontro, in fin dei conti, con un aspetto di Dio che non posso giudicare e superare logicamente, perché è più forte di me, perché, cioè, ha carattere numinoso e io v’incontro il tremendum e fascinosum. Non posso “superare” un numinosum, ma soltanto stargli davanti disposto a farmi travolgere, fidandomi del suo senso.”[3]

L’essere empirici non significa considerare relativamente il bene e il male in quanto tali. Il male è il male, ma il paradosso lo ritroviamo quando per una data persona può essere benefica e coraggiosa la scelta di affrontare il male che semplicemente incarna un’ombra collettiva. Gli uomini psicologicamente debbono superare il proprio infantilismo sperimentando, dell’Ombra, lo sguardo e sopportandone la potenza al confronto, per evitare una regressione dalla veste psichica pura e immacolata. Ma della felix culpa dei progenitori si è forse fatto un uso esagerato, e del prodigio della Redenzione oggi il male chiede sempre di più il soccorso. Scrive Massimo Recalcati:  

“Il Novecento è stato il secolo dove ha trionfato la paranoia totalitaria: la lotta politica e sociale si è confusa con la lotta tra le forze del Bene e del Male. La natura storica del conflitto è stata sostituita da una battaglia ontologica. L’identificazione infatuata all’Ideale (Popolo, Storia, Razza, Partito, Classe sociale, Nazione) ha spogliato di ogni valore la vita individuale. […]. Hannah Arendt non a caso aveva definito l’essenza del totalitarismo come la prevalenza del carattere universale dell’Ideale su quello particolare-singolare del reale. La vocazione paranoica di questa prevalenza spiega, a sua volta, l’identificazione del nemico come l’espressione infame del Male che deve essere estirpato. Il mondo si spacca e si suddivide in schieramenti rigidi e contrapposti; la dialettica politica lascia il posto al piombo e al sacrificio di sé. La paranoia totalitaria pare oggi, almeno in Occidente, irreversibilmente tramontata. Sulle ceneri degli Ideali appare un nuovo tipo umano che la categoria clinica di perversione ci aiuta a decifrare. La psicoanalisi ha infatti da tempo smesso di ricondurre la perversione a una aberrazione delle pratiche sessuali cosiddette normali. Già Freud, infatti, aveva mostrato che la sessualità umana non obbedendo all’istinto naturale che coniuga il soddisfacimento alla necessità della riproduzione della specie, è, di per sé, perversa-polimorfa. Ma allora, se la perversione non definisce una vita sessuale anormale, quale è la sua essenza? Nella lezione di Lacan essa viene riportata ad uno speciale rapporto del soggetto con la Legge. Il perverso non crede alla Legge. Non solo alla Legge del Diritto e dei Codici, ma a qualunque forma umana della Legge. […]. In questo senso il perverso realizza, già secondo Freud, quello che il nevrotico può solo fantasticare. Il suo modello non è infatti l’uomo, il quale è fatalmente destinato alla mancanza e alla insufficienza, ma quello di farsi paganamente un nuovo Dio. […]. Non è questo il ritratto dell’uomo ipermoderno? Egli agisce come un Dio del godimento che giudica ogni esperienza di rinuncia priva di senso. […].”[4]

Sembra lontano l’uomo “ipermoderno” dal ritratto del giovane che nel momento in cui diviene maggiorenne è salutato dalle parole del padre: Adesso hai vent’anni. La gente comune si attiene alla Bibbia e a quel che dicono i preti. E per i più intelligenti c’è il codice penale. Orientandolo, nella costruzione della coscienza personale, allo scontro con la moralità religiosa e “ufficiale”, guadagnandosi una posizione mediana di etica consapevole della propria libertà creativa.

“Perfino colui che compie un’azione spesso non ne percepisce l’intima qualità morale, la somma dei motivi consci e inconsci che ne costituisce la base; tanto meno può farlo chi giudica l’azione altrui che conosce soltanto dall’esterno, dalle apparenze, e non nel suo essere più profondo. Kant pretendeva a ragione che il singolo e la comunità dovessero progredire da una pura “etica del fatto” a “un’etica del sentimento”. In definitiva, soltanto Dio può penetrare a fondo il sentimento che è alla base di un’azione. Perciò nel giudicare quello che in concreto è buono o cattivo dobbiamo essere molto cauti, ipotetici e non apodittici, quasi che potessimo penetrare i più remoti fondamenti. Le concezioni morali distano spesso l’una dall’altra quanto il nostro concetto di leccornia dista da quello degli eschimesi. […]. Mettere una persona davanti alla propria ombra equivale a mostrarle anche ciò che in essa è luce. Chi ha fatto questa esperienza, chi nel giudicare sta a mezza strada tra gli opposti, sente inevitabilmente che cosa s’intende con il proprio Sé. […].”[5]           

Stare al centro equivale, quindi, vedere se stesso dal lato della propria ombra (del male) e dal lato della propria luce (del bene), e vedere il dato reale come illusorio, dietro l’opposto e negli opposti, e abbracciare la sua interezza. Questo Sé, quale simbolo dell’interezza, non sta certo al posto di Dio, ma diviene il contenitore del sacro, a tutela delle forze divine del creato, la cui potenza ha armato la mano della razionalità scientifica dell’uomo.

In un recente articolo, Giancarlo Bosetti scrive a proposito del saggio di Michael Walzer “The Paradox of Liberation, Secular Revolutions and Religious Counterrevolutions” (Yale University Press), in cui il filosofo americano si interroga sulle radici del fenomeno della radicalizzazione delle religioni, accaduto dagli ultimi vent’anni del Novecento sino ad oggi negli stati in cui la fiducia modernista dei padri fondatori – da Ben Gurion a Jawaharlal Nehru e Ahmed Ben Bella – ha ritenuto la religione una forma di tradizione culturale che poteva lasciare il passo al nuovo, rimuovendone il retroterra popolare:

“L’analisi di Walzer scopre con la consueta sorprendente semplicità di linguaggio fatti e idee che documentano come le rivoluzioni che hanno fondato nuovi Stati hanno visto condottieri in conflitto culturale con le genti che hanno guidato (cosa vera già a cominciare da Mosè, educato alla corte del faraone). Un distacco che non era lontano dal disprezzo (Nehru per l’induismo, per esempio). La teoria da cui il filosofo ebreo-americano è tentato, e che lascia al lettore il desiderio di formulare, è che il mondo contemporaneo sta pagando il prezzo di quell’errore. Dove i “padri fondatori” di quei paesi sbagliarono gravemente non fu nel correggere i vizi della tradizione religiosa (le caste, la sottomissione della donna, il rifiuto della modernità), ma nel modo in cui lo fecero. Invece di impegnarsi e sfidare queste tradizioni a trarre dal loro interno le ragioni per superare pratiche e idee contraddittorie o aberranti, usarono un metodo “archimedeo” (datemi una leva…), esterno. In questo modo quelle élite non conquistarono una vera egemonia, “imposero” una cultura, ma non negoziarono con essa. E hanno fallito, non sapendo riprodurre la loro modernità nelle nuove generazioni. E anche nelle loro promesse di eguaglianza e pluralismo offerte allora, agli arabi in Israele, ai musulmani in India, ai berberi in Algeria.”[6]

Una lettura che tenta l’interpretazione della relazione tra politica e religione come una possibile interdipendenza, e un rapporto in cui ragione e passione si intersecano e si intercettano. Se è vero che per conoscere se stessi è necessario partire dalla propria identità, per sapere chi siamo dovremmo poter attingere alla storia delle origini del nostro passato, alle sue leggi e ai suoi principi.

 

[1] C.G. Jung (1959), Bene e male nella psicologia analitica, in Opere, Vol. XI, Torino, Boringhieri, 1979, p. 469.

[2] Op. cit., p. 470.

[3] Op. cit., p. 471.

[4] M. Recalcati, Perchè si è attratti dalla perversione, in «La Repubblica» 7 giugno 2016, p. 31.

[5] C.G. Jung, Bene e male nella psicologia analitica, p. 475.

[6] G. Bosetti, Il grande errore laico dei padri fondatori, in «La Repubblica» 6 giugno 2016, p. 35.

Senso di appartenenza e amore dell'Altro

Senso di appartenenza e amore dell’Altro, funzione del sentimento, genitorialità: sembrano questi gli argomenti utili ad affrontare i problemi legati alla sessualità di adolescenti e giovani adulti, trattati negli articoli pubblicati di seguito, scritti da Massimo Ammaniti[1], Umberto Galimberti[2] e Massimo Recalcati[3].

 

I nostri ragazzi soli che si aiutano attraverso i social

Massimo Ammaniti

Di notte, nelle loro camere si scambiano informazioni su Facebook o su Whatsapp e noi non ne sappiamo nulla.

Nonostante siano passati più di cento anni dalla pubblicazione del libro di Sigmund Freud Tre saggi sulla teoria sessuale ci si interroga ancora oggi su come gli adolescenti scoprano la sessualità e come gli adulti, genitori o insegnanti, possano aiutarli in questo percorso. Nei primi anni di vita dei figli è più facile per i genitori parlare della sessualità, ad esempio mostrando illustrazioni o video, ma poi con lingresso nella pubertà tutto si complica, perché dare delle informazioni non è più sufficiente come in passato, occorre parlare più esplicitamente di come affrontare le prime esperienze sessuali, come proteggersi da possibili rischi. E poi chi ne deve parlare, il padre o la madre? Sono questi gli interrogativi a cui devono rispondere i genitori. Con la pubertà anche per i ragazzi e le ragazze lo scenario cambia profondamente, sotto limpulso degli ormoni i desideri e le fantasie li travolgono spingendoli a iniziare le prime esperienze sessuali spesso allinterno del proprio gruppo dei coetanei. E i genitori rimangono spesso interdetti, vorrebbero consigliarli ma i figli non vogliono intrusioni e sono sempre piuttosto reticenti a parlare di sessualità, tranne quando incappino in qualche problema che li obbliga a richiedere il loro aiuto. Neanche la scuola riesce a fare molto, gli stessi corsi di educazione sessuale si muovono sul piano dellinformazione e non riescono a scalfire le resistenze dei ragazzi e delle ragazze a parlare di se stessi. E allora quali sono i canali che gli adolescenti usano per scoprire il mondo della sessualità? Le storie di amore e di sesso che si trovano ad esempio sulla piattaforma digitale Wattpad suscitano sicuramente la curiosità degli adolescenti, come anche i romanzi bestseller per giovanissimi con titoli accattivanti che inondano il mercato. Ma più che i ragazzi a leggere questi libri sono le ragazze, più portate a fantasticare e a sognare le storie damore, come avviene con la tradizione dei romanzi rosa un tempo prediletti dalle donne. Un classico romanzo rosa per ragazze è stato il famoso libro Piccole donne di Louise Alcott pubblicato nel 1868, che ha facilitato leducazione sentimentale di generazioni e generazioni di ragazze di tutto il mondo. Le storie delle quattro sorelle raccontate dalla Alcott erano molto diverse da quelle che si possono leggere oggi, cerano sì i turbamenti sentimentali delladolescenza, ma in un contesto di perbenismo americano, che veniva alfine coronato da matrimoni convenzionali. Basta leggere After, uno dei romanzi per gli adolescenti di oggi, per scoprire la grande differenza: la protagonista è Tessa una ragazza riservata e perbene, che vuole solo studiare in una buona Università, ma rimane intrappolata in una storia travolgente di sesso con Hardin, un ragazzo fascinoso e sregolato, arrogante e ribelle che lassoggetta in un rapporto passionale. Ma negli ultimi anni sono soprattutto i social network ad aver cambiato gli scambi fra ragazzi e ragazze che passano lunghe ore a chattare su WhatsApp oppure su Facebook, favoriti anche dallintimità della notte nella propria stanza e dal fatto di non trovarsi faccia a faccia. Fin dallingresso nelladolescenza ci si scambia messaggi con aperte allusioni sessuali in un gioco che può prolungarsi non solo fra ragazzi e ragazze che si conoscono, ma anche con sconosciuti incontrati sui social network. E non solo si parla di sesso, ma si può arrivare a frasi pesanti verso una ragazza, si scaricano foto in cui si mostra il proprio corpo e si chiede di fare altrettanto al ragazzo o alla ragazza, fino a postare i video di rapporti sessuali che si sono avuti. È unarena in cui spesso non si è soli, ci sono anche i coetanei che non solo assistono, addirittura intervengono con i propri commenti e le battute. Lintimità degli scambi sessuali viene messa sotto i riflettori dei coetanei e questo può esporre ladolescente agli occhi degli altri divenendo una vittima della rete, con il rischio di perdere il senso della propria privatezza. Tutto questo può avvenire senza che i genitori lo scoprano, ma forse come nel recente film Perfetti sconosciuti i genitori devono aiutare i figli ad emergere da questo mondo clandestino da cui può essere difficile sottrarsi.

 

Non è l’anatomia a rendere capaci di fare i genitori

Umberto Galimberti

Ora che le decisioni sono state prese e il clima su questo tema non è più infuocato, approfitto della sua lettera garbata e argomentata per tornare sul tema delle adozioni, discutendo in termini “quasi scientifici”, dal momento che la psicoanalisi a cui lei fa riferimento non è una scienza, e le neuroscienze sanno ancora troppo poco dell’anima e anche, se mi permette, del corpo. La separazione dell’anima dal corpo è stata inaugurata da Platone per giungere a conoscenze universali e valide per tutti, a cui non era possibile pervenire se ci si fosse regolati unicamente sulle informazioni provenienti dai sensi corporei, essendo queste informazioni diverse da individuo a individuo, e nel corso della vita dello stesso individuo. Poi il Cristianesimo, con Agostino, accolse il dualismo di anima e corpo che Platone aveva inaugurato per risolvere un problema di conoscenza, e lo rigiocò in un altro scenario: quello della salvezza. Il passo successivo ancora fu compiuto da Cartesio che, inaugurando la scienza moderna, ridusse il corpo a organismo e poi cercò di porlo in relazione all’anima ricorrendo alla ghiandola pineale. Quando sento dire che la psicologia è ormai persuasa che esiste una relazione tra anima e corpo, dico che questa relazione è un puro gioco di parole, finché qualcuno non sarà in grado di dimostrarmi perché, se uno mi insulta (evento culturale) mi produce una vasodilatazione (evento fisiologico). Per quanto concerne le neuroscienze, esse sono ancor meno attrezzate della psicologia per trovare l’unità di anima e corpo, perché il corpo che indagano è ancora il corpo di Cartesio, ossia l’organismo, non il corpo del mondo della vita, del tutto estraneo alle neuroscienza, e, se mi permette, in parte anche alla psicologia, eccezion fatta per la psicologia fenomenologica che da un secolo a questa parte, con Husserl, Heidegger, Jaspers, Sartre, Merlau-Ponty, Binswanger, Minkowski, e da noi Callieri e Borgna, sta chiedendo alla psicologia di cambiare paradigma. Ho fatto questa premessa perché lei mi parla di corpi maschili e femminili, intendendo gli organismi della donna e dell’uomo, che sono indubbiamente diversi. Ma se dall’organismo ci portiamo all’altezza del corpo, la felicità di un bimbo dipende dall’affetto che riceve, dall’attenzione che chi lo ha adottato gli dedica, dal mondo che i genitori adottivi gli creano intorno. Perché l’organismo, come tutte le cose, “è” nel mondo, mentre il nostro corpo “dischiude” un mondo, accoglie gli stimoli che da quel mondo provengono e in quel mondo si sente chiamato e impegnato. Ed è di un mondo che i bambini hanno bisogno, non di due organismi diversamente sessuati. Per quanto poi riguarda la psicoanalisi, Lacan, che lei opportunamente cita, riformula in altro modo quello che Freud aveva già enunciato illustrando il complesso di Edipo, il cui superamento decide la buona organizzazione psichica del soggetto. Ma Freud aveva anche precisato che tale concetto era applicato solo in Occidente, dove vige la famiglia nucleare, e non nelle altre società che Freud definisce «eso-edipiche», dove si cresce al di fuori del percorso edipico, senza per questo diventare affatto dei disadattati o dei pazzi. Quando nelle dispute sulle adozioni gay sento dire che “ogni bimbo ha diritto a un padre e a una madre”, penso: quanto siamo ancora etnocentrici, nell’assumere l’organizzazione familiare che noi occidentali ci siamo dati come l’unica in grado di garantire la salute psichica di chi viene al mondo! Salvo poi curare la depressione di tantissimi giovani, che giungono persino a progettare il suicidio, pur avendo avuto una mamma e un papà.

 

Si fa presto a dire famiglia

Massimo Recalcati

Famiglia è ancora una parola decente che può essere pronunciata senza provocare irritazione, fanatismi o allergie ideologiche? Famiglia è ancora una condizione fondamentale e irrinunciabile del processo di umanizzazione della vita oppure è un tabù da sfatare? Se c’è stato un tempo nel quale essa appariva circondata da un alone di sacralità inviolabile non rischia forse oggi di essere condannata come una sopravvivenza ottusa della civiltà patriarcale? Sono solo i cattolici più intransigenti a sostenere la sua esistenza come indispensabile alla vita umana?

Dal punto di vista laico della psicoanalisi la famiglia resta una condizione essenziale per lo sviluppo psichico ed esistenziale dellessere umano. La vita umana ha bisogno di casa, radici, appartenenza. Essa non si accontenta di vivere biologicamente, ma esige di essere umanamente riconosciuta come vita dotata di senso e di valore. Lo mostrava “sperimentalmente” un vecchio studio di Renè Spitz sui bambini inglesi orfani di guerra che dovettero subire il trauma della ospedalizzazione (Il primo anno di vita del bambino, Giunti 2009). La solerzia impeccabile delle cure somministrate dalle infermiere del reparto nel soddisfare tutti i bisogni cosiddetti primari dei bambini non erano sufficienti a trasmettere loro il segno irrinunciabile dellamore. Effetto: cadute depressive gravi, anoressia, abulia, marasma, stati di angoscia, decessi. Se la vita del figlio non è raccolta e riconosciuta dal desiderio dellAltro, resta una vita mutilata, cade nellinsignificanza, si perde, non eredita il sentimento della vita. Non è forse questa la funzione primaria e insostituibile di una famiglia? Accogliere la vita che viene alla luce del mondo, offrirle una cura capace di riconoscere la particolarità del figlio, rispondere alla domanda angosciata del bambino donando la propria presenza. La clinica psicoanalitica ha riconosciuto da sempre limportanza delle prime risposte dei genitori al grido del figlio. Non si tratta solo di soddisfare i bisogni primari perché la vita umana non è la vita di una pianta, né quella dellanimale, non esige solo il soddisfacimento dei bisogni, ma domanda la presenza del desiderio dellAltro; vive, si nutre del desiderio dellAltro. La vita umana non vive di solo pane, ma dei segni che testimoniano lamore. Lattualità politica ci impone a questo punto una domanda inaggirabile: tutto questo concerne la natura del sesso dei genitori? Essere capaci di rispondere alla domanda damore del figlio dipende dalla esistenza di una coppia cosiddetta eterosessuale? La famiglia come luogo dove la vita del figlio viene accolta e riconosciuta come vita unica e insostituibile – ogni figlio è sempre “figlio unico”, afferma Levinas,– è un dato naturale, un evento della biologia? Siamo sicuri che lamore di cui i figli si nutrono scaturisca, come lovulo o lo spermatozoo, dalla dimensione materialistica della biologia? Esiste davvero qualcosa come un istinto materno o un istinto paterno o forse queste formulazioni che riflettono una concezione naturale della famiglia contengono una profonda e insuperabile contraddizione in termini? Se, infatti, quello che nutre la vita rendendola umana non è il “seno”, ma il “segno” dellamore, possiamo davvero ridurre la famiglia allevento biologico della generazione? Non saremmo invece obbligati a considerare, più coerentemente, che un padre non può essere mai ridotto allo spermatozoo così come una madre non può mai essere ridotta ad un ovulo? La domanda si allarga inevitabilmente: cosa significa davvero diventare genitori? Lo si diventa biologicamente o quando si riconosce con un gesto simbolico il proprio figlio assumendosi nei suoi confronti una responsabilità illimitata? Le due cose non si escludono ovviamente, ma senza quel gesto la generazione biologica non è un evento sufficiente a fondare la genitorialità. In questo senso Françoise Dolto affermava che tutti i genitori sono genitori adottivi. Generare un figlio non significa già essere madri o padri. Ci vuole sempre un supplemento ultra- biologico, estraneo alla natura, un atto simbolico, una decisione, unassunzione etica di responsabilità. Un padre e una madre biologica possono generare figli disinteressandosi completamente del loro destino. Meritano davvero di essere definiti padri e madri? E quanti genitori adottivi hanno invece realizzato pienamente il senso dellessere padre e dellessere madre pur non avendo alcuna relazione biologico-naturale coi loro figli? Questo ragionamento ci spinge a riconsiderare lincidenza del sesso dei genitori. Ho già ricordato come lamore sia a fondamento della vita del figlio. Ma lamore ha un sesso? Prendiamo come punto di partenza una formula di Lacan: “lamore è sempre eterosessuale”. Come dobbiamo intendere seriamente leterosessualità? Questa nozione, per come Lacan la situa a fondamento dellamore, non può essere appiattita sulla differenza anatomica dei sessi secondo una logica elementare che li differenzia a partire dalla presenza o meno dellattributo fallico. Lamore è eterosessuale nel senso che è sempre e solo amore per lAltro, per leteros. E questo può accadere in una coppia gay, lesbica o eterosessuale in senso anatomico. Non è certo leterosessualità anatomica – come lesperienza clinica ci insegna quotidianamente – ad assicurare la presenza dellamore per leteros! È invece solo leterosessualità dellamore a determinare le condizioni migliori affinchè la vita del figlio possa trovare il suo ossigeno irrinunciabile.

 

 

[1] M. Ammaniti, I nostri ragazzi soli che si aiutano attraverso i social, in «La Repubblica» 1 maggio 2016, p. 45.

[2] U. Galimberti, Non è l’anatomia a rendere capaci di fare i genitori, in «D – La Repubblica» 30 aprile 2016, p. 130.

[3] M. Recalcati, Si fa presto a dire famiglia, in «La Repubblica» 1 maggio 2016, p. 56.

"Carol" e lo spirito regale

Alla storia femminile narrata nel film Carol (The Price of Salt), del regista Todd Haynes,  Cate Blanchett e Rooney Mara hanno contribuito non poco, con l’intensità delle loro capacità interpretative, a restituire al nostro immaginario la forza della scelta di vita delle due donne. Se è vero che la mente femminile, quando è autentica e non condizionata da un Animus negativo, è maggiormente capace di aprirsi a nuove idee, a fare breccia nelle tradizioni e a legarsi in modo meno rigido ad una precisa Weltanschauung, questo avviene soprattutto nelle questioni che hanno a che fare con la passione, l’amore e la costruzione delle relazioni. Comunque un’attitudine non facile e spesso minata dagli aspetti negativi collettivi della cultura in cui ci troviamo a vivere, come vediamo anche nei nostri tempi a proposito delle Unioni civili. Una difficoltà che ritroviamo presente al tempo di una fiaba proveniente dalla regione storica del Turkestan, intitolata Il Cavallo Magico, che vorrei proporre con l’analisi di Marie-Louise von Franz, soffermandomi soprattutto sul punto che mi ha permesso l’associazione con la figura femminile protagonista del film: un autentico atteggiamento spirituale. Scrive Marie-Louise von Franz (2009, p. 46):

“L’Animus di una donna può dimostrare una certa rigidità, ma in genere la psiche femminile possiede l’elasticità necessaria ai processi di rinnovamento. Se la donna ha un complesso paterno positivo, non sarà contenta di occuparsi esclusivamente degli aspetti fisici e materiali della vita, ma sarà particolarmente capace di affrontare le grandi questioni spirituali della sua epoca. Per questo motivo, una donna che abbandona il percorso tradizionale per sperimentare aspetti di vita meno superficiali, proprio come fa l’eroina della nostra fiaba, diventa l’incarnazione di un principio femminile in grado di occupare una posizione alla pari con quella del principio dominante rappresentato dal re. Diventa regina.”

Ma vediamo un po’ cosa racconta la fiaba: Ci sono una bellissima Principessa, un Re che gioca d’astuzia per rendere impossibile la ricerca di un futuro principe consorte, un servo, uno spirito maligno chiamato Div, un cavallo magico, e una coppia di umili vecchi accoglienti. Manca la regina madre. Il padre nutre a tal punto una pulce (simbolo di animale parassita che succhia l’energia vitale e si comporta come un complesso autonomo) da farla diventare grande come un cammello e quindi la scortica e utilizza la pelle come prova da sottoporre ai corteggiatori. Solo colui che avrà scoperto l’origine del manto si unirà alla principessa, ma il segreto verrà rivelato da lì a poco dal servo del Re che fra sé e sé, ma a voce alta, commenta la pelle della pulce. Ad ascoltare in prossimità della palude vi è, infatti, uno spirito maligno, il Div, che si affretta a travestirsi da mendicante e a dichiarare al Re l’esito della prova. Ma il Re non ci sta a perdere il regno e non mantiene la promessa, a quel punto il maligno lancia in aria il suo cappello e fa scendere una nebbia così fitta da oscurare il cielo. Il Re, spaventato, ritorna sui suoi passi e consegna la figlia al mendicante, con la ricompensa della luce del sole grazie al cappello gettato a terra. La Principessa piange e si dispera nella solitudine della stalla, allorquando un cavallino le rivolge la parola suggerendole di portarlo con sé per un lungo viaggio, insieme ad un fiorellino rosa, del sale, un pettine e uno specchio. Questi oggetti serviranno durante la fuga per mantenere impegnato lo spirito maligno che la inseguirà senza posa. L’immagine del cavallo può rappresentare una forza bisessuale ma, in questo caso, con una energia carica di valenza femminile: quando manca un materno positivo, perché scomparso, morto o assente, spesso l’energia regredisce nella psiche, e a livello simbolico può apparire nei sogni, come nelle fiabe o nelle molteplici forme dell’arte, quale immagine animale dell’istinto soccorrevole presente nella personalità della figlia. E’ una rappresentazione di forza e di potere, e la coscienza ne beneficia quando si mette in relazione con questa energia sensibile, saggia e creativa. Osservando la prima parte della fiaba, notiamo gli aspetti che possono essere di aiuto al femminile per fuggire dall’Animus negativo (il Div) che vorrà raggiungerla e divorarla. Gli oggetti, gettati dietro di sé, serviranno infatti alla Principessa per creare ostacoli, se pur momentanei. Partire o lasciare andare le cose è un sacrificio che si compie come offerta ad un dio pagano, un rituale lontano dalla visione cristiana che impone di guardare direttamente il lato oscuro, perché il carattere numinoso della realtà è difficile da nominare, quindi serve riconoscere, da un punto di vista psicologico, il potere che ha e “darsela a gambe”. Uscire dal conflitto, dopo averlo sperimentato intensamente e con tutti i mezzi utili ad affrontarlo, significa affidarsi alla forza dell’istinto (il cavallo) unitamente alle parti rappresentate dall’Io (gli oggetti che il cavallino le consiglia di portare con sé). La Principessa offre aspetti della personalità femminile: il fiore, con le sue parti solari e quelle rivolte all’ombra, velenose e pungenti, che si trasformano in un rovo di spine; il sale, che si trasforma in deserto e in mare, e che ricorda il sapore amaro dell’acqua marina. L’amarezza è un tipico sentimento che proviamo nella delusione in amore, ma è anche un potente stimolo alla differenziazione quando la donna riesce a contenere gli impulsi emotivi, evolvendo con la riflessione e lo sviluppo del senso dell’ironia e dell’umorismo l’affetto della rabbia in saggezza; un pettine, che ricorda la capacità organizzativa del pensiero femminile, che si trasforma in montagna, quale mole di lavoro e impegno per nutrire un Animus spiccatamente critico; uno specchio, che si trasforma in un grande fiume, e che simbolicamente rappresenta una pausa di riposo e il flusso della riflessione ma, soprattutto, un mezzo per conoscere meglio le nostre reazioni e quelle che noi suscitiamo negli altri. A proposito dell’istinto della riflessione scrive James Hillman (1977, p. 115):

“Come Jung disse a proposito di quest’istinto: «Reflexio è un volgersi verso l’interno, con il risultato che, invece di un’azione istintiva, si hanno una successione di contenuti o stati derivati che possono essere chiamati riflessione o deliberazione. Talché al posto dell’atto coatto compare un certo grado di libertà […]. La ricchezza della psiche umana e la sua caratteristica essenziale sono probabilmente determinate da questo istinto riflessivo, la riflessione rimette in scena il processo di eccitazione e trasforma lo stimolo in una serie di immagini che, se l’impeto è sufficientemente forte, vengono riprodotte in una certa forma di espressione. Questo può avvenire direttamente, ad esempio, nel discorso, o apparire sotto forma di pensiero astratto, di rappresentazione teatrale o di condotta etica; o ancora, in un’impresa scientifica o in un’opera d’arte. […]. Attraverso l’istinto riflessivo, lo stimolo viene più o meno interamente trasformato in un contenuto psichico, cioè diviene un’esperienza: un processo naturale viene trasformato in un contenuto conscio. La riflessione è l’istinto culturale par excellence…»”.

Un vero sacrificio lo si compie con grande decisione, senza aver nulla in cambio. Nel film Carol questa forza è espressa dalla protagonista nel momento in cui decide di lasciare la figlia in custodia al padre chiedendo la sola possibilità di vederla. Rinunciando ad averla con sé, rinuncia al conflitto con il marito, scegliendo il rispetto per i suoi sentimenti e per la scelta di vita: audace per la Manhattan del 1952, quando la scrittrice Patricia Highsmith sotto altro nome, pubblica il romanzo “The Price of Salt” conosciuto anche come Carol, da cui ha il titolo la pellicola. Scrive Marie-Louise von Franz (2009, p. 42):

“Per poter fare questo dobbiamo essere mossi da una potenza superiore all’Io  che viene esperita quale forma di imperativo interiore che ci fa sentire l’obbligo di compiere un sacrificio. Nel linguaggio della psicologia di Jung, diremmo che si tratta del Sé, il centro regolatore della psiche. C’è una sorta di identità fra chi offre un sacrificio e la cosa che viene sacrificata: diventiamo ciò che sacrifichiamo perché ciò che sacrifichiamo è un pezzo di noi stessi, e pars pro toto, ci rimettiamo al Sé.” 

Un altro aspetto trasformativo comune nella storia di Carol e nelle vicende della protagonista della fiaba, è relativo alla funzione del senso del riposo e di abbandono in sé, come momento produttivo di libertà e tregua dall’incalzare dell’Animus negativo. Durante la fuga, la Principessa arriva davanti ad una capanna dove abitano una coppia di anziani che le offrono un giaciglio per la notte, ma esausta si addormenta all’esterno. Ed è lì che il falco di un giovane re, durante una battuta di caccia, si ferma sulla sua testa individuandola agli occhi dell’uomo come futura sposa, nonostante le umili origini che lei gli fa credere in quanto figlia della coppia degli anziani ospiti. Le due figure positive di padre e di madre, quale incontro umile, profondo, interiore, degli aspetti simbolici della saggezza dello spirito e dell’amore della natura materna, sono coronate dal falco. Ne Il libro dei simboli (2011, p. 252) leggiamo:

“Una delle primissime immagini di regalità in Egitto, e nella storia dell’uomo, è stata quella del falco, capace di percorrere lunghe distanze e di vedere lontano. […] Il falco era l’emblema del dio supremo o “lontano”, mentre il re era la rappresentazione e l’incarnazione terrena di quel dio (Frankfort, 37). […] Se in passato costruiva il suo nido nei punti più alti dei palazzi e dei templi dell’antico Egitto, oggi lo fa nei grattacieli dei centri urbani. […] Gli enormi occhi rotondi sono 30 volte più sensibili ai colori dell’occhio umano e sono muniti di una doppia fovea per una visione stereoscopica. […] Per la sua capacità di volare in alto, di percorrere lunghi tragitti e di vedere persino la luce ultravioletta, il falco è il messaggero mitico tra il mondo terreno e soprannaturale. […].”

Nel film, Carol, una donna che appartiene all’alta società, dopo la breve fuga d’amore con Therese e il ritorno in famiglia, ha fatto la scelta di sacrificare la convivenza con la figlia, divorziando dal marito. In seguito si occuperà di vendite in un negozio di mobili, abiterà da sola e aspetterà il momento per poter incontrare la giovane amante e chiederle di vivere con lei. Therese, sofferente per l’abbandono della donna, ha avuto la forza di cambiare la sua vita, decidendo di lasciare la mansione di commessa, e spinta dal coraggio della sua passione ha accettato l’incarico di fotografa per una testata giornalistica. Poi si incontrano, e sono libere nello scambio dei loro sguardi, ma Therese rifiuta l’offerta d’amore: il volo del falco continuerà ancora a librarsi nell’aria, ma per poco, poi atterrerà in picchiata, e la luce del suo occhio coglierà quella dell’altro, oltre le possibilità umane.

“L’uccello che si posa sulla testa della ragazza è il falco del re, un uccello cui in Oriente si riconoscono caratteristiche regali e divine. Sembra proprio che la ragazza venga prescelta dallo spirito per diventare la sposa del re. Nel contesto della nostra interpretazione, e mantenendo un punto di vista femminile su tutta la vicenda, dovremmo considerare il re come la rappresentazione di un’altra figura di Animus, […] qui si tratterebbe di una vera forza spirituale e non semplicemente di un elemento in contrasto con la vita femminile della donna.”(von Franz, 2009, p. 44).

Ma questa è solo la prima parte della fiaba...

 

Archive for Research in Archetypal Simbolism, Il libro dei simboli, Colonia, Taschen, 2011

Carol, T. Haynes, USA, 2015

J. Hillman, Saggio su Pan, Milano, Adelphi, 1977

C.G. Jung (1928), L’Io e l’inconscio, in Opere, Vol. VII, Torino, Boringhieri, 1983

M.-L. von Franz (1974), L’Ombra e il male nella fiaba, Torino, Bollati Boringhieri, 1995

M.-L. von Franz, L’Animus e l’Anima nelle fiabe, Roma, Edizioni Magi, 2009

            

A proposito dell'arcobaleno

È difficile non solo per gli uomini entrare in contatto con la funzione del sentimento. Anche le donne faticano a trovare la strada quando possono legarsi ad un uomo diverso dal padre: la costruzione del desiderio si confronta sempre con la forza degli istinti, come sappiamo e non solo dal nostro lavoro. Scrive Marina Valcarenghi (1999, p. 36):

“[…] né l’archetipo maschile, né l’archetipo femminile appartengono in esclusiva a un sesso o all’altro e […] l’energia psichica di ogni uomo e di ogni donna può accogliere, nel corso della vita, l’uno o l’altro, orientandosi verso un’immagine di completezza.”

Quando noi donne usiamo il sentimento maschile tendiamo a organizzare le nostre emozioni, e a orientarle verso un fine, a volte una vocazione, dirigendo l’energia penetrativa nella costruzione dei nostri desideri, mettendoci in gioco in prima persona. Per fermarci poi, giunte all’obiettivo, centrate sulla percezione emotiva, propria del sentimento femminile, che rivela l’essere nella sua capacità contemplativa e ricettiva nei confronti dell’oggetto amoroso. In realtà, questo movimento dovrebbe corrispondere ad un moto di alternanza nella sfera del sentimento, che porta ad una coniunctio oppositorus nell’integrazione delle parti, come origine di un’immagine del Sé. Parti che, se rimangono inconsce, quindi in ombra e con un aspetto arcaico, rischiano di essere dominate dalle emozioni che si impossessano del nostro modo di agire, sentire e pensare. La volontà invece, che è la base psichica dell’istinto - cioè la quantità di libido che utilizziamo per sottrarci alla funzione conservatrice della componente fisiologica - in quanto predisposizione ereditaria a capire il mondo e a interpretarlo, la possiamo usare sia come funzione della coscienza che aiuta a comprendere la vita tramite i sensi, sia come capacità di tradurre il mondo interno in forme creative visibili all’esterno. Dare forma al mondo interiore è quindi una possibilità creativa che si confronta con il modo di sentire collettivo, contro i modelli dominanti della società che tendono ancora oggi a confinare il sentimento femminile in accezione passiva, umiliando il corpo e la dignità del desiderio e dello spirito. Un esempio: Franca Viola che nel 1967 rifiutò di sposare l’uomo che l’aveva violentata, modificando con il coraggio della sua scelta il codice penale a proposito della funzione delle nozze riparatrici.

A questo proposito, i miti e le fiabe offrono immagini simboliche che aiutano a svelare i significati inconsci in grado di esercitare su di noi una forte risonanza emotiva. In una delle fiabe interpretate da Marie-Louise von Franz – che fu analista, allieva e collaboratrice di Carl Gustav Jung – intitolata Il Vecchio Rink Rank, dei fratelli Grimm, che leggiamo all’interno del libro L’Animus e l’Anima nelle fiabe, il vecchio Cavaliere Rosso dalla barba lunga ben diciassette pollici, rappresenta l’Animus negativo della principessa e l’Ombra del Re. Frequentemente, nelle fiabe in cui sono presenti un re, una principessa e una prova, alle cui difficoltà è sottoposto il promesso sposo nonché probabile futuro regnante, manca la figura della regina. L’assenza della figura materna, in termini di psicologia personale, mostra spesso i tratti della debolezza e della insicurezza nell’identità femminile, tanto che può accadere che la figlia cada vittima dell’Animus, cioè della componente inconscia maschile della sua personalità, con il pericolo della identificazione negli aspetti negativi dell’uomo, ad esempio la rigidità del pensiero, lo spirito polemico e l’intransigenza. Naturalmente, una fiaba mostra solo come possono coesistere gli archetipi vicini fra loro nell’inconscio collettivo, e come la realtà profonda della vita personale di ogni individuo possa basarsi su dinamiche universali, fintanto che i fatti stessi non sopraggiungono a creare tensioni e conflitti. Quindi, in questa fiaba, la mancanza della madre, di un elemento di accoglienza e calore importanti per il processo di individuazione del femminile, segnala l’assenza del sentimento quale orientamento nella vita del regno. E l’imago paterna segna la tenacia dell’ordine irremovibile, collegato all'Animus quale archetipo di senso e significato. Infatti, la prova riservata al giovane innamorato si presenta come trappola per la principessa: una montagna di vetro, la cui scalata rappresenta la vittoria per la mano della contendente, si apre inghiottendo la figlia del re. (Nella clinica può accadere di osservare il sintomo quando alla paziente è offerta la possibilità di uscire dal complesso paterno che la condiziona). All’interno della prigione si trova l’aspetto negativo del maschile interiore della principessa, rappresentato nei panni del Vecchio Rink Rank (Cavaliere Rosso), che chiede alla giovane di fargli da serva dandole il nome di Signora Mansrot (l’elemento rosso dell’Uomo). Ogni giorno Rink Rank esce dalla montagna di vetro (simbolo di trasparenza e capacità intellettuale, che consente di vedere attraverso ma non di entrare in contatto con la natura esterna) arrampicandosi con una scala, e ogni sera rientra carico di oro e argento, aspetti seduttivi offerti dall'Animus negativo affinché la figlia rimanga in una gabbia isolata e inconsapevole delle potenzialità del suo valore, incantata dal meraviglioso mondo offerto dal padre. Fino a quando la principessa,  divenuta consapevole del suo spirito d'iniziativa, riesce ad incastrargli la lunga barba e a fuggire dalla finestra facendosi dare la scala. (Il simbolo della barba può rappresentare nella realtà il chiacchiericcio inconscio, e bloccare la barba o tagliarla significa fermare le parole o il pensiero ruminante. È bene chiedersi: sono io che parlo e penso o è qualcosa dentro di me? Sono così attaccata alle mie opinioni e pregiudizi che questi agiscono al posto mio?) Ora la principessa è libera dalla morte di sé, grazie all’intelligenza e al coraggio mobilitati dalla prossimità del pericolo. La fiaba si conclude con la ragazza che sposa il corteggiatore e il padre che uccide il vecchio barbuto impossessandosi del tesoro, inteso ora quale simbolo di energia trasformatrice più che di ricchezza materiale. Scrive Marie-Louise von Franz (2009p. 23):

“In molte fiabe l’eroe negativo porta il nome di Cavaliere Rosso. Nel nostro racconto, il vero legame fra la ragazza e il demone si evidenzia attraverso i loro nomi: ciascuno dei due porta un nome che contiene il termine “rosso”. Rink Rank, il Cavaliere Rosso, chiama la ragazza Mansrot, che combina l’idea del rosso della passione con l’elemento maschile; in tal modo le prospetta di guadagnare la propria dimensione di autenticità, collegando a livello cosciente l’Animus, quale maschile interiore nella donna, con la sfera del sentimento. Nella psiche di una donna scarsamente conscia del suo maschile interiore, l’Animus tende ad appropriarsi del lato emotivo della personalità dando vita a una goffaggine sentimentale paragonabile al proverbiale 'elefante nel negozio di porcellane'. Anche se una donna riesce, in qualche misura, a sviluppare un buon Logos, con obiettività e senso critico nei propri confronti, senza però nessun rapporto con la personificazione del maschile interno, la sua natura femminile resterà sentimentalmente repressa […].”

Il colore rosso è il legame, il buon conduttore: la dimensione di autenticità del femminile è data dalla capacità di elevare a livello cosciente il suo sentimento, l'energia di legarsi all'altro. Quando una donna non sa che si è identificata con il maschile negativo, in virtù del fatto che ne aveva paura, non conosce il suo lato femminile del sentimento perché non ha potuto sperimentare l’unione nella relazione con l'altro da sé. Per questo motivo la natura femminile rimane repressa e il sentimento pure, pronto a farsi catturare dall’Animus negativo. Nella simbologia popolare il rosso è il colore collegato all’amore e al desiderio così come all’emozione della rabbia e alla aggressività. In questa fiaba è l'elemento simbolico trasformativo che rappresenta sia l'aspetto negativo del maschile che si oppone alla crescita psicologica propria della donna, sia tutto quanto è proprio della vita stessa, se riconduciamo il suo significato all'esperienza del sangue e del fuoco. Il rosso è un colore caldo e “maschile” secondo il simbolismo dei colori, ed è associato all’impulso sessuale e al senso di ribellione: è il colore di un caldo sentimento che emerge dal profondo, che si espande dall’anima della donna (dalla vita) e si mostra nell’incontro con l’alterità per assumersi l’audacia della colpa.

 

J. Jacobi, Dal regno delle immagini dell'anima, Roma, Edizioni Magi, 2003

C. G. Jung (1919), Istinto e inconscio, in Opere, Vol. VIII, Torino, Boringhieri, 1976

C. G. Jung (1921), Tipi psicologici, in Opere, Vol. VI, Torino, Bollati Boringhieri, 2004

M. Valcarenghi, Relazioni, Milano, Tranchida Editore, 1999

M.-L. von Franz, L'Animus e l'Anima nelle fiabe, Roma, Edizioni Magi, 2009

“Uomini senza donne”: le ragioni del sentimento

In uno dei racconti del libro di Murakami Haruki Uomini senza donne, Kino è il protagonista che dà il nome alla storia, e che mostra la sua sofferenza con i tratti delle visioni di chi non riesce a nominare e a dare voce al suo sentimento d’amore ferito. Tradito dalla donna con cui vive, colta in flagrante con il suo collega, è incapace di soffrire veramente e reprime le sensazioni essenziali. Ma solo lui, Kino, avrebbe potuto aprire dall’interno le sue emozioni, e solo il suo cuore, il suo sentimento, sarebbe potuto arrivare alla sua mente bussando: toc, toc. E così è stato:

“Ancora una volta, quella visita era la cosa che più desiderava, e al tempo stesso più temeva. Proprio in questo consiste l’ambiguità, nell’occupare lo spazio fra due estremi.” (Murakami, 2015, p. 176)

Il trauma dell’abbandono amoroso, soprattutto se è avvelenato dal tradimento sessuale consumato con il miglior amico o collega, colpisce duramente l’autostima del soggetto e mortifica il sé amoroso. Come scrive lo psicoanalista Gustavo Pietropolli Charmet (2013, p. 71):

“La mortificazione del sé amoroso o sportivo o scolastico, comunque il sé più investito narcisisticamente e affidato alla manutenzione e tutela di un altro essere vivente, ritenuto perciò dotato di una sua bellezza autentica, è in realtà spesso fragilissimo e va in frantumi se ad attaccarlo è chi dovrebbe invece proteggerlo.” 

In queste circostanze di umiliazione il sé dell’individuo è invaso da un sentimento di inadeguatezza, e spesso accade che i giovani si sentono brutti, nel corpo e nella mente, e per questo si ritirano dal mondo, dalle relazioni, dalla passione e dall’Eros. Nei soggetti estroversi, nei quali la dipendenza dall’amore dell’altro è un garante esterno in grado di conferire bellezza, nel momento in cui muore la coppia amorosa, lo specchio si spezza e il giovane, potenziale principe azzurro, ritorna all’equivalente animale nei panni del rospo, e la giovane, promessa regina, nelle umili vesti di Cenerentola. Questo accade, e sembra dare conferma al sentimento dell’amore come costruzione di sé attraverso la relazione che ognuno di noi ha con le figure significative del proprio mondo. Nel racconto di Murakami, sentire bussare alla porta del cuore come è capitato a “Kino”, è già una ipotesi avanzata e generosa, di colui che è in grado di assumere la fortuna della conquista e la colpa della perdita. Invece, quando la solitudine è isolamento, la mancanza del sentimento di sé si configura come condizione originaria di base, e prende le forme della propria bruttezza: un’immagine privata della capacità di evolversi perché non è stata trasformata dalla relazione d’amore, un vissuto difficile da intercettare, ma non impossibile da modificare nella relazione analitica.

 

H. Murakami, Uomini senza donne, Torino, Einaudi, 2015

G. Pietropolli Charmet, La paura di essere brutti, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2013