“A caccia di uno spazio vuoto”

“Sarebbe giusto che si andasse a caccia di uno spazio vuoto da non riempire”, scriveva Gillo Dorfles[1] a proposito degli spazi urbani; una riflessione che Aldo Carotenuto utilizza nel terzo capitolo intitolato Il sacrificio di una scelta del volume Vivere la distanza[2], in risposta all’ideale di un tempo tutto pieno, indifferenziato e saturo di continue attività. Gli spazi aggregativi anonimi, i non-luoghi, definiti così dall’antropologo Marc Augè nel 1992, si estendono anche al tempo, “col dissolversi dei limiti tra il giorno e la notte, con la presenza continuativa dei programmi televisivi, con gli orari non-stop dei centri commerciali”.[3] Il tempo presente, con la condizione forzata della pandemia, ci costringe all’interno delle nostre case, rovescia il fuori con il dentro, e ci impone il cambio di maschera richiesta dai ruoli connessi sia con l’esterno attraverso il web, sia con le funzioni familiari domestiche. Possiamo vedere “l’isolamento” come l’opportunità di contrastare la paura della solitudine, quella tendenza che ci ha portato a sterilizzare le emozioni e ha impoverito la qualità dei rapporti tra individuo e individuo, traducendo i nostri comportamenti in una vorace e insaziabile ricerca di nuovi confini distorcendo il senso del limite. Una condizione umana che condanna l’individuo ad una scissione tra l’onnipotenza del pensiero e la frustrazione della realtà con i correlati patologici di maniacalità e depressione. Ci troviamo ora in una condizione in cui la società (noi) deve fungere da regolatrice dei comportamenti, contribuendo a dissipare il disorientamento e sollecitare il sentimento di appartenenza alla comunità solidale. Il senso della solitudine “nasce dalla consapevolezza che ciò che definisce e conferma la nostra identità non è certo quell’insieme anonimo di convenzioni sociali e compiti stereotipati che possono servire tutt’al più a etichettarci e catalogarci, ma qualcosa di assai più profondo e vitale con cui dobbiamo trovare un contatto”.[4] Il nostro sacrificio sarà quasi certamente ricompensato dalla possibilità di recuperare l’essenza autentica di quanto ci sta attorno, come bambini, soli in presenza di qualcuno. Di questo tempo possiamo vedere anche la bellezza della noia; in fondo, “la solitudine, affermava Jung, non deriva dal fatto di non avere nessuno con cui parlare, ma dalla consapevolezza che ciò che costituisce di noi il nucleo più intimo e profondo, ciò per cui siamo noi e non altri, è incomunicabile. È questa la vera, fondamentale esperienza della solitudine […].”[5] Se la condizione dell’universalità rivela la sua radice individuale, questa può essere un’opportunità per costruire una visione personale della nostra esistenza.


[1] Gillo DORFLES, L’intervallo perduto, Milano, Feltrinelli, 1989, p.13.

[2] Aldo CAROTENUTO,Vivere la distanza, Milano, Bompiani, 1998.

[3] Ivi, p.24.

[4] Ivi, p.29.

[5] Ivi, p.27.