La cura oscura [1]
“Per chi non crede in un Dio che ha un piano per noi, il significato della vita di solito si trova nel cercare di aiutare gli altri, in particolare coloro che amiamo.” (Jonathan Franzen)[2]
Tra i modi della cura possiamo annoverare l’attenzione al particolare, al dettaglio, al dato unico dell’individuo, eccezionalmente irripetibile. Quando facciamo esperienza, il frutto del caso che si presenta come arricchimento della nostra persona – soprattutto quando ciò avviene in giovane età, ma non solo – sembra portarci fuori dal senso comune, al di sopra della norma, nell’aura che caratterizza l’evento elitario o, addirittura, l’opera d’arte. Ci sentiamo speciali. Così può accadere quando rimaniamo emotivamente sospesi, gonfi e quasi tronfi, per quei fatti vissuti che costituiscono ammirazione ai nostri stessi occhi. Poi, è sufficiente confrontarsi con il gruppo dei pari per imparare che l’esperienza eccezionale è stata vissuta da molti dei suoi componenti, e il “welcome to the club” è il modo migliore per riportare a terra i piedi dello spavaldo di turno. Sappiamo dagli studi di psicoanalisi sul narcisismo che l’uomo utilizza il processo creativo avvalendosi degli aspetti affettivi e simbolici per rimodellare e dare una nuova forma ed espressione alle parti del Sé. E l’uso attuale delle moderne tecnologie, dei computer e dei cellulari dalle cui piattaforme web è possibile soddisfare il bisogno comunicativo, ha moltiplicato il numero delle persone che alimentano la propria narrazione con l’ammirazione filtrata attraverso la realtà virtuale. Come scrive Gustavo Pietropolli Charmet “[…] è molto probabile che nella società del narcisismo esista un consenso implicito e quasi una esortazione rivolta a tutti a intonare il proprio canto […]. È verosimile che se il modello educativo familiare e il contesto sociale favoriscono la realizzazione del Sé, il soggetto cerchi di ottenere il massimo livello di visibilità sociale possibile. Per Narciso essere guardato mentre cerca di affrontare la condizione umana è importante e lo aiuta a tirare avanti”[3]. L’Autore giunge inoltre ad ipotizzare, mettendoci in guardia, “che l’imponente sforzo espressivo che caratterizza il soggetto attuale, orientato fin dall’infanzia a cercare la strada della valorizzazione ed esibizione sociale del Sé, tragga origine dal proposito di raggiungere l’ammirazione […][4].
Questa realtà socioculturale sembra che possa prendersi cura di noi e dei nostri figli attraverso il rispecchiamento e il conforto della visibilità offerta dai dispositivi tecnologici. L’eccezionalità e l’unicità dell’individuo sembrano garantite, ma la costruzione del Sé è fragile, se pensata come proiezione nell’etere. Ci aiutano le parole di Emanuele Trevi – che colgo nel testo in appendice al romanzo di Giuseppe Berto Il malo oscuro, riferite alla conclusione dello Zibaldone di Giacomo Leopardi –, quando dicono: “Chi ancora non conosce la vita, insomma, confida nell’«eccezione», e nella possibilità di vivere «per modo di eccezione». […] Rendersene conto è una forma del disincanto alla quale collabora attivamente la società, provvedendo ad eliminare nei giovani un’illusione, addirittura una «mirabile disposizione della natura». […] Ci penserà il tempo, ovviamente, a dimostrare quanta poca «eccezione» sia disponibile al di fuori dei romanzi e della poesia. Fino al giorno in cui si rimane attoniti, come si è detto, constatando il sovrano potere della «regola generale» sul «caso proprio» che non è altro che una sua variabile e in ultima analisi una sua conferma.”[5]
Le relazioni psicoterapeutiche che curano attraverso l’ascolto, l’osservazione, l’accoglimento delle emozioni delle persone, dei loro silenzi, del loro pianto e dei sorrisi illuminati, consentono di andare verso il riconoscimento di sé, dei propri limiti e anche del sentimento di compassione che permette di accettare il senso della colpa. “Tradotto in una delle molteplici metafore psicoanalitiche – scrive Pietropolli Charmet – si potrebbe parafrasare così: l’affievolirsi del potere del Super-Io ha consentito agli ideali dell’Io di farsi avanti senza più tenere in nessun conto i valori e le regole, le ingiunzioni e le minacce provenienti dal Super-Io esausto, ormai del tutto accasciato ed incapace di arginare l’avanzata tronfia e saccente degli ideali dell’Io […]”[6]. Quindi, interrompere la rincorsa alla via di fuga narcisistica in grado di alimentare sine die la dignità di sé può aiutare ad evitare il crollo narcisistico dell’individuo, che può avere conseguenze a volte drammatiche.
Allora, insieme, sarà raggiunto un obiettivo nella cura: quando all’individuo l’esperienza non apparirà più eccezionale e non si identificherà più con la sua unicità, ma potrà fare “un passo indietro” e sentire che finalmente è comune alla vita.
[1] Nota ai margini del tema, Sine cura. Riflessioni sulla cura, incontro online, «Zolla-Aps» 6 febbraio 2021.
[2] Alberto FRACCACRETA, Amava tutte le creature, perciò amo San Francesco, in «La Lettura» 24 gennaio 2021, p. 18.
[3] Gustavo PIETROPOLLI CHARMET, L’insostenibile bisogno di ammirazione, Laterza, Bari-Roma 2018, p. 46.
[4] Ivi, p. 47.
[5] Emanuele TREVI, Lo stile psicoanalitico di Berto, in Giuseppe Berto, Il male oscuro, Neri Pozza, Vicenza 2016, p. 354.
[6] Gustavo PIETROPOLLI CHARMET, L’insostenibile bisogno di ammirazione, cit., p. 52.