“Che cos’è una religione?”
Che cos’è una religione? Si domandò Jung rivolgendosi al suo pubblico durante la quinta e ultima conferenza del ciclo che tenne tra il 30 settembre e il 4 ottobre del 1935 alla Clinica Tavistock di Londra, su invito di James Arthur Hadfield (1882 – 1967). E rispose:
“Una religione è un sistema psicoterapeutico. Che facciamo, noi psicoterapeuti? Cerchiamo di guarire le sofferenze della mente umana, della psiche o dell’anima umana, e le religioni affrontano lo stesso problema. […]. Non faccio un gioco di parole quando definisco la religione un sistema psicoterapeutico. È il sistema più elaborato, e si fonda su una grande verità di ordine pratico.”[1]
Jung riferì ai suoi illustri colleghi presenti quanto fosse esigua la percentuale di pazienti cattolici avuti negli ultimi trent’anni di lavoro, rispetto alla stragrande maggioranza di ebrei e di protestanti. Raccontò che mandò un questionario a persone che non conosceva con il quesito: “Se avete dei problemi psicologici, cosa fareste? Andreste dal medico, oppure dal prete o dal pastore?” Bene, il 60% circa di cattolici rispose che si sarebbe rivolto sicuramente ad un prete, mentre il 20% circa dei protestanti che sarebbe andato da un pastore. I più contrari erano i parenti e i figli di pastori. Un cinese gli rispose con molta eleganza che da giovane sarebbe andato da un medico e da vecchio avrebbe preferito un filosofo. Tutti gli altri erano favorevoli al medico. Ma la grande percentuale dei cattolici dimostrava che la Chiesa cattolica in particolare, con il suo sistema rigoroso della confessione, si poneva come istituzione terapeutica. Dice Jung:
“Credo sia perfettamente corretto usare queste istituzioni psicoterapeutiche che la storia ci ha dato, e rimpiango di non essere un uomo del Medioevo, che potrebbe aderire ad un simile credo. Sfortunatamente occorre una psicologia medievale per riuscirvi, e io non sono sufficientemente medievale. Ma questo vi dimostra come io prenda sul serio le immagini archetipiche e una forma adeguata delle loro proiezioni, poichè l’inconscio collettivo è un fattore veramente importante della psiche umana. […]. Tutti gli elementi personali come le tendenze incestuose e le altre storielle infantili non sono che la superficie; quello che realmente racchiude l’inconscio sono i grandi eventi collettivi del tempo. La storia si forma proprio nell’inconscio collettivo dell’individuo e quando gli archetipi vengono attivati ed emergono in un gran numero di individui, ci troviamo nel cuore della storia, come ora. […]. Chi avrebbe mai immaginato nel 1900 che trent’anni dopo potesse accadere in Germania quello che sta accadendo adesso? Avreste creduto che un’intera nazione di persone intelligenti e colte sarebbe caduta vittima del potere ammaliante di un archetipo? […]. È impossibile resistervi. È qualcosa che ti prende sotto la cintura e non nella testa, il cervello non conta assolutamente nulla, è il sistema simpatico che è stretto nella sua morsa, è un potere che affascina le persone dal di dentro, è l’inconscio collettivo che viene attivato, è un archetipo comune a tutta quella gente, che è tornato in vita. E poichè è un archetipo, ha aspetti storici e non possiamo capire gli eventi senza conoscere la storia.”[2]
Tenere conto dell’importanza dei valori impersonali, quali sono gli archetipi, consente al paziente di aderire al suo credo religioso, alla sua Chiesa o a qualsiasi altra cosa. Riuscire a far confluire la sua esperienza dell’inconscio collettivo in una forma di religione consente alle immagini archetipiche di confluire in una struttura che le contenga. Riconoscere il valore della storia, e degli archetipi che ancora la mantengono lingua viva e multietnica, assomiglia al grande lavoro che l’etnopsichiatria dei capostipiti della scuola francese Georges Devereux (1908 – 1985) e Tobie Nathan (1948), svolge oggi nel setting etnopsicoanalitico, in cui terapeuti di varie culture, insieme ad un mediatore culturale, accolgono il paziente migrante riconnettendolo con parte della sua famiglia, con il suo gruppo e la sua storia di appartenenza. Storia che è natura prima di essere cultura.
Jung ha definito l’oggettivazione delle immagini impersonali il quarto stadio del trattamento della traslazione tra paziente e terapeuta, quale componente del processo di individuazione, che ha come fine la liberazione della coscienza dall’oggetto. Una pratica che consente all’individuo di non ricercare la felicità in fattori esterni a lui, ma trovare in se stesso il centro di gravità. Scrive Jung:
“Raggiungere tale stato di distacco è il fine delle pratiche religiose dell’Oriente ed è perseguito anche dagli insegnamenti della Chiesa. Nelle varie religioni il Tesoro è proiettato nelle figure sacre, ma questa ipostatizzazione non è più possible per la moderna mente illuminata. Moltissimi individui non sono più in grado di esprimere i loro valori impersonali in simboli storici.”[3]
La nevrosi è la conseguenza della scissione tra la funzione psicologica che si è fatta carico di dare forma alle immagini impersonali e l’individuo stesso. E la religione, fin dall’alba della coscienza, è stata la forma che ha oggettivato tali immagini mantenendo saldo il vincolo con l’uomo. Jung scrive che la nostra psicologia ha una coda molto lunga che assomiglia a quella dei sauri, che equivale all’intera storia della nostra famiglia, della nostra nazione, dell’Europa, e di tutto quanto il mondo. Ed è quello che scordiamo sempre:
“Scordiamo ogni volta che la nostra coscienza è solo la facciata, l’avant-garde della nostra esistenza psicologica. La nostra testa non è che un’estremità, ma dietro la nostra coscienza vi è la lunga “coda” storica di esitazioni e debolezze e complessi e pregiudizi e retaggi, e sempre facciamo i conti senza di loro. Pensiamo ogni volta di poter tirare diritto nonostante le nostre carenze, ma quelle gravano su di noi e spesso ci fanno deragliare prima di aver raggiunto la nostra meta perchè ci siamo dimenticati della “coda”.”[4]
[1] C.G.Jung (1935), Fondamenti della psicologia analitica, in Opere, Vol XV, Torino, Bollati Boringhieri, 1991, p. 167.
[2] Op. cit., pp. 168-169.
[3] Op. cit., p. 171.
[4] Op. cit., p. 93.