Margini del bene e del male
C’è una storiella che racconta di un confessore del Texas a cui si presenta un giovanotto dalla faccia molto cupa, al quale chiede:
“Di cosa si tratta?”
“E’ accaduta una cosa terribile!”
“Ma che cosa?”
“Assassinio”
“Quanti?”
“Se si vuole intendere su una questione complessa come quella del bene e del male, bisogna partire da qui: bene e male sono in sé principi, e dobbiamo tenere a mente che un principio esiste da molto tempo prima di noi e si estende molto più in là di noi.”[1]
Se ne può parlare con grande sicurezza, certi che il buono o il cattivo coincidano davvero con la cosa reale, senza sapere che la circostanza ha una qualità profonda che non conosciamo, oltre alla misura e alla gravità che il giudizio soggettivo attribuisce alla colpa. Scrive Jung:
“Da dove ci viene allora questa fede, questa apparente sicurezza di conoscere il bene e il male? “Eritis sicut Deus, scientes bonum et malum”. Soltanto gli dei lo conoscono, noi no. Ciò è straordinariamente vero anche dal punto di vista psicologico. Se uno prende un atteggiamento di questo genere: “Forse la tal cosa è mal fatta. Forse no”, allora avrà una chance di fare la cosa giusta, ma se sa già tutto in anticipo si comporta come se fosse un dio. Siamo soltanto uomini limitati e, in fondo, non sappiamo concretamente quello che in un determinato caso è bene o male. Lo sappiamo solo in astratto. Penetrare completamente una situazione compete soltanto a Dio. Forse possiamo farcene un’idea ma senza sapere se, in fin dei conti, sia valida. Tutt’al più possiamo dire prudentemente: secondo questo o quel metro, questo o quello è buono o cattivo. Qualcosa che qui da noi è giudicato cattivo può essere considerato buono altrove. Questa relatività nella valutazione vale anche in campo estetico: uno valuta un’opera d’arte moderna cosa di grandissimo valore ed è pronto ad acquistarla a caro prezzo; un altro non saprebbe che farsene.”[2]
Questo è un atteggiamento empirico, né teoretico né aprioristico, un atteggiamento che non anticipa ma costruisce partendo da un principio, da quanto era precedentemente, dall’origine. Se il principio è sempre di un ordine più alto, il bene e il male sono, secondo Jung, i principia del nostro giudizio etico, la cui radice ontica ci riporta agli aspetti di Dio:
“[…]in una situazione a tonalità affettiva, mi scontro con un fatto o con un accadimento paradossale, mi scontro, in fin dei conti, con un aspetto di Dio che non posso giudicare e superare logicamente, perché è più forte di me, perché, cioè, ha carattere numinoso e io v’incontro il tremendum e fascinosum. Non posso “superare” un numinosum, ma soltanto stargli davanti disposto a farmi travolgere, fidandomi del suo senso.”[3]
L’essere empirici non significa considerare relativamente il bene e il male in quanto tali. Il male è il male, ma il paradosso lo ritroviamo quando per una data persona può essere benefica e coraggiosa la scelta di affrontare il male che semplicemente incarna un’ombra collettiva. Gli uomini psicologicamente debbono superare il proprio infantilismo sperimentando, dell’Ombra, lo sguardo e sopportandone la potenza al confronto, per evitare una regressione dalla veste psichica pura e immacolata. Ma della felix culpa dei progenitori si è forse fatto un uso esagerato, e del prodigio della Redenzione oggi il male chiede sempre di più il soccorso. Scrive Massimo Recalcati:
“Il Novecento è stato il secolo dove ha trionfato la paranoia totalitaria: la lotta politica e sociale si è confusa con la lotta tra le forze del Bene e del Male. La natura storica del conflitto è stata sostituita da una battaglia ontologica. L’identificazione infatuata all’Ideale (Popolo, Storia, Razza, Partito, Classe sociale, Nazione) ha spogliato di ogni valore la vita individuale. […]. Hannah Arendt non a caso aveva definito l’essenza del totalitarismo come la prevalenza del carattere universale dell’Ideale su quello particolare-singolare del reale. La vocazione paranoica di questa prevalenza spiega, a sua volta, l’identificazione del nemico come l’espressione infame del Male che deve essere estirpato. Il mondo si spacca e si suddivide in schieramenti rigidi e contrapposti; la dialettica politica lascia il posto al piombo e al sacrificio di sé. La paranoia totalitaria pare oggi, almeno in Occidente, irreversibilmente tramontata. Sulle ceneri degli Ideali appare un nuovo tipo umano che la categoria clinica di perversione ci aiuta a decifrare. La psicoanalisi ha infatti da tempo smesso di ricondurre la perversione a una aberrazione delle pratiche sessuali cosiddette normali. Già Freud, infatti, aveva mostrato che la sessualità umana non obbedendo all’istinto naturale che coniuga il soddisfacimento alla necessità della riproduzione della specie, è, di per sé, perversa-polimorfa. Ma allora, se la perversione non definisce una vita sessuale anormale, quale è la sua essenza? Nella lezione di Lacan essa viene riportata ad uno speciale rapporto del soggetto con la Legge. Il perverso non crede alla Legge. Non solo alla Legge del Diritto e dei Codici, ma a qualunque forma umana della Legge. […]. In questo senso il perverso realizza, già secondo Freud, quello che il nevrotico può solo fantasticare. Il suo modello non è infatti l’uomo, il quale è fatalmente destinato alla mancanza e alla insufficienza, ma quello di farsi paganamente un nuovo Dio. […]. Non è questo il ritratto dell’uomo ipermoderno? Egli agisce come un Dio del godimento che giudica ogni esperienza di rinuncia priva di senso. […].”[4]
Sembra lontano l’uomo “ipermoderno” dal ritratto del giovane che nel momento in cui diviene maggiorenne è salutato dalle parole del padre: Adesso hai vent’anni. La gente comune si attiene alla Bibbia e a quel che dicono i preti. E per i più intelligenti c’è il codice penale. Orientandolo, nella costruzione della coscienza personale, allo scontro con la moralità religiosa e “ufficiale”, guadagnandosi una posizione mediana di etica consapevole della propria libertà creativa.
“Perfino colui che compie un’azione spesso non ne percepisce l’intima qualità morale, la somma dei motivi consci e inconsci che ne costituisce la base; tanto meno può farlo chi giudica l’azione altrui che conosce soltanto dall’esterno, dalle apparenze, e non nel suo essere più profondo. Kant pretendeva a ragione che il singolo e la comunità dovessero progredire da una pura “etica del fatto” a “un’etica del sentimento”. In definitiva, soltanto Dio può penetrare a fondo il sentimento che è alla base di un’azione. Perciò nel giudicare quello che in concreto è buono o cattivo dobbiamo essere molto cauti, ipotetici e non apodittici, quasi che potessimo penetrare i più remoti fondamenti. Le concezioni morali distano spesso l’una dall’altra quanto il nostro concetto di leccornia dista da quello degli eschimesi. […]. Mettere una persona davanti alla propria ombra equivale a mostrarle anche ciò che in essa è luce. Chi ha fatto questa esperienza, chi nel giudicare sta a mezza strada tra gli opposti, sente inevitabilmente che cosa s’intende con il proprio Sé. […].”[5]
Stare al centro equivale, quindi, vedere se stesso dal lato della propria ombra (del male) e dal lato della propria luce (del bene), e vedere il dato reale come illusorio, dietro l’opposto e negli opposti, e abbracciare la sua interezza. Questo Sé, quale simbolo dell’interezza, non sta certo al posto di Dio, ma diviene il contenitore del sacro, a tutela delle forze divine del creato, la cui potenza ha armato la mano della razionalità scientifica dell’uomo.
In un recente articolo, Giancarlo Bosetti scrive a proposito del saggio di Michael Walzer “The Paradox of Liberation, Secular Revolutions and Religious Counterrevolutions” (Yale University Press), in cui il filosofo americano si interroga sulle radici del fenomeno della radicalizzazione delle religioni, accaduto dagli ultimi vent’anni del Novecento sino ad oggi negli stati in cui la fiducia modernista dei padri fondatori – da Ben Gurion a Jawaharlal Nehru e Ahmed Ben Bella – ha ritenuto la religione una forma di tradizione culturale che poteva lasciare il passo al nuovo, rimuovendone il retroterra popolare:
“L’analisi di Walzer scopre con la consueta sorprendente semplicità di linguaggio fatti e idee che documentano come le rivoluzioni che hanno fondato nuovi Stati hanno visto condottieri in conflitto culturale con le genti che hanno guidato (cosa vera già a cominciare da Mosè, educato alla corte del faraone). Un distacco che non era lontano dal disprezzo (Nehru per l’induismo, per esempio). La teoria da cui il filosofo ebreo-americano è tentato, e che lascia al lettore il desiderio di formulare, è che il mondo contemporaneo sta pagando il prezzo di quell’errore. Dove i “padri fondatori” di quei paesi sbagliarono gravemente non fu nel correggere i vizi della tradizione religiosa (le caste, la sottomissione della donna, il rifiuto della modernità), ma nel modo in cui lo fecero. Invece di impegnarsi e sfidare queste tradizioni a trarre dal loro interno le ragioni per superare pratiche e idee contraddittorie o aberranti, usarono un metodo “archimedeo” (datemi una leva…), esterno. In questo modo quelle élite non conquistarono una vera egemonia, “imposero” una cultura, ma non negoziarono con essa. E hanno fallito, non sapendo riprodurre la loro modernità nelle nuove generazioni. E anche nelle loro promesse di eguaglianza e pluralismo offerte allora, agli arabi in Israele, ai musulmani in India, ai berberi in Algeria.”[6]
Una lettura che tenta l’interpretazione della relazione tra politica e religione come una possibile interdipendenza, e un rapporto in cui ragione e passione si intersecano e si intercettano. Se è vero che per conoscere se stessi è necessario partire dalla propria identità, per sapere chi siamo dovremmo poter attingere alla storia delle origini del nostro passato, alle sue leggi e ai suoi principi.
[1] C.G. Jung (1959), Bene e male nella psicologia analitica, in Opere, Vol. XI, Torino, Boringhieri, 1979, p. 469.
[2] Op. cit., p. 470.
[3] Op. cit., p. 471.
[4] M. Recalcati, Perchè si è attratti dalla perversione, in «La Repubblica» 7 giugno 2016, p. 31.
[5] C.G. Jung, Bene e male nella psicologia analitica, p. 475.
[6] G. Bosetti, Il grande errore laico dei padri fondatori, in «La Repubblica» 6 giugno 2016, p. 35.